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Robben Island, dove tutto ebbe inizio

Nelson Mandela amava il calcio. Ma durante la sua lunga prigionia non gli fu mai concesso di giocare. Le partite dovette accontentarsi di vederle da dietro le sbarre della sua angusta cella, la 466, nel famigerato penitenziario sudafricano di Robben Island dove trascorse 18 dei 27 anni di prigionia. Sicuramente è stato il tifoso più illustre di quel singolare campionato che iniziò nel dicembre 1967 su un campo di terra battuta, con una palla di stracci, le porte fatte con assi di legno e reti da pesca.
I primi a scendere in campo un sabato mattina, sotto lo sguardo vigile e le armi dei secondini bianchi, accompagnati dai latrati dei loro feroci cani da guardia, furono i “calciatori” dei Rangers e dei Bucks. Non c’erano divise, se non quelle del carcere, quasi tutti i giocatori erano a piedi nudi e molti a mala pena stavano in piedi. La partita durò mezz’ora. Ma fu un momento memorabile e da allora il calcio assunse un ruolo centrale nella vita dei detenuti, che cominciarono ad attendere con impazienza l’appuntamento del sabato mattina. Il primo campionato lo vinse la compagine Manong.
I prigionieri, detenuti politici esponenti della lotta all’apartheid, avevano impiegato tre anni per ottenere il permesso – chi si presentava con tale richiesta alle autorità del carcere beccava due giorni di digiuno – ma alla fine ci erano riusciti. E presero la cosa molto sul serio, tanto che nel 1969 le nove squadre formatesi diedero vita a una federazione, la Makana Football Association. Un nome simbolico:  Makana era un condottiero xhosa esiliato sull’isola nel 1819 dopo aver sfidato il potere coloniale e che venne ucciso in un tentativo di fuga.
A Robben Island il calcio divenne una scuola politica:  si misero da parte le divisioni che contrapponevano i detenuti, che cominciarono a lavorare insieme. Per ottenere maglie, scarpe, persino cibo adeguato allo sforzo atletico, i prigionieri avviarono un negoziato con le autorità, e si impegnarono a evitare risse e proteste. Attraverso la Makana divennero un movimento unitario e si convinsero che un giorno il loro Paese sarebbe stato libero e che essi avrebbero avuto una parte in quel cammino.
Su quel campetto improvvisato si formò la futura classe dirigente del Paese, che dopo l’abbattimento dell’apartheid assunse il potere. Tra dirigenti, arbitri e calciatori c’erano molti personaggi poi giunti alla ribalta; fra gli altri, l’attuale presidente del Sud Africa, Jacob Zuma, il ministro per gli insediamenti, Tokio Sexwale, e Dikgang Moseneke, vicepresidente della Corte costituzionale. E Mandela, che pure non poté parteciparvi, comprese più di ogni altro il valore di quell’esperienza:  quelle che si disputavano all’interno del carcere erano molto più che improvvisate partite di calcio, come recita anche il titolo del film del 2007 che racconta questa singolare storia, More than just a game. Erano l’humus da cui sarebbe germogliato il nuovo Sud Africa. Il football contribuì a cambiare la vita degli uomini sull’isola. E quegli uomini contribuirono a cambiare il futuro di un popolo.
Oggi che il Paese ha cambiato volto e che ospita la massima competizione calcistica mondiale, la Fifa World Cup, l’esperienza di Robben Island è consegnata alla storia. Del resto proprio la Fifa qualche anno fa ha voluto la Makana Football Federation come membro onorario. Un riconoscimento significativo per il calcio sudafricano, che ha una storia antica e travagliata. Nel Paese il football arrivò con i soldati inglesi alla fine dell’Ottocento e da subito pesò la distinzione della razza, con le partite disputate solo da squadre i cui calciatori avevano la pelle dello stesso colore. Tanto che con il passare del tempo si formarono ben quattro federazioni:  nel 1882 la Football Association of South Africa (Fasa) per i bianchi, nel 1903 la South African Indian Football Association per gli indiani, nel 1933 la South African Bantu Football Association per i neri, e nel 1936 la South African Coloured Football Association per i meticci. Ovviamente l’esordio internazionale toccò alla squadra dei bianchi:  1-0 con l’Argentina a Buenos Aires.
Ma non fu certo semplice entrare nel massimo consesso mondiale del calcio. La Fasa venne accolta dalla Fifa solo nel 1956 e appena due anni dopo ricevette una sorta di ultimatum. Per restarvi avrebbe dovuto adeguarsi entro un anno alle direttive della federazione internazionale riguardo alla discriminazione razziale:  in sostanza nella squadra nazionale dovevano poter giocare calciatori di tutte le etnie. Ciò non accadde e la Confederation for African Football decise l’espulsione. La Fifa optò per una sospensione che durò fino al 1961, quando Sir Stanley Rous – il nuovo presidente della Fifa, proveniente dalla federazione dell’Inghilterra, ovvero un Paese sensibile agli interessi del Sud Africa – riammise la Fasa sostenendo che le questioni politiche non avrebbero dovuto pesare sulle decisioni sportive.
Poi nel 1976 a Soweto scoppiò la protesta degli studenti neri contro la politica segregazionista del National Party, il partito degli afrikaner nazionalisti. La polizia soffocò le manifestazioni studentesche con la forza; diverse centinaia di persone furono uccise nell’arco di dieci giorni di contestazione. L’evento colpì l’opinione pubblica mondiale. A quel punto la Fifa decise allora di espellere il Sud Africa dalla federazione. Per la riammissione si dovette attendere il 1991, quando il processo di scardinamento del regime dell’apartheid nel Paese era di fatto divenuto irreversibile e anche il calcio sudafricano  si  era  adeguato, accettando squadre con giocatori di diverse etnie. Come la rinnovata nazionale dei Bafana Bafana (“i nostri ragazzi” in lingua zulu) che nel 1992 disputò la prima partita internazionale, dopo circa venti anni di assenza dalla scena mondiale (vittoria sul Camerun per 1-0), e che nel 1996 si aggiudicò la Coppa d’Africa.
Dopo due decenni la fisionomia del calcio sudafricano è cambiata. Nelle squadre i calciatori neri sono la maggioranza, al contrario di quanto avviene nel rugby, dove prevalgono i bianchi. Ma oggi più che mai la memoria va a quell’isola a circa 10 chilometri al largo di Città del Capo. L’ultima partita ufficiale vi fu disputata nel 1991, anno di chiusura del carcere divenuto nel 1997 patrimonio mondiale dell’umanità. Ma in realtà l’ultimo match a Robben Island venne giocato il 18 luglio 2007, per festeggiare il compleanno di Mandela, il padre del nuovo Sud Africa. E non è stato un caso che il 3 dicembre scorso Fifa e Governo di Pretoria abbiano scelto di presentare il mondiale 2010 proprio in quest’isola simbolo (Osservatore Romano).

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