Archivio di Spettacolo

Il ricettario segreto di De André

«Bell’oueggé strapunta de tûttu bun/prima de battezàlu ’ntou prebuggiun/cun dui aguggiuîn dritu ’n pùnta de pé/da sùrvia ’n zû fitu ti ’a punziggè» («Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio/prima di battezzarla nelle erbe aromatiche/con due grossi aghi dritto in punta di piedi/da sopra a sotto svelto la pungerai»). Così Fabrizio De André, in ’A çìmma – dall’album Le nuvole – insegnava alla sua maniera a fare la «cima» alla genovese. Amava mangiar bene Fabrizio; la cima e il pesto delle sue radici ma anche mirto, lepre in salmì, pasta fresca fatta a mano in mille maniere e tanti altri manicaretti racchiusi nel libro delle «ricette di Fabrizio De André», da lui scritto a mano su un quadernetto con la rilegatura ad anelli, ereditato e ora reso pubblico da Agostino Zizu e Tonina Puddu, i cuochi dell’Agnata, l’agriturismo di Tempio Pausania fondato dal cantautore con la moglie Dori Ghezzi.
Mentre continua a prendersela tanto con i borghesi quanto con i finti rivoluzionari da concerto rock, De André riscopre le radici rurali nella sua fattoria in Gallura. Munge le vacche, mescola il concime, coltiva l’orto, si appassiona alla cucina ligure e sarda. Ricostruisce e personalizza i vari piatti e ne spiega passo dopo passo la preparazione sul suo libriccino. Lepre in salmì, ortaggi ripieni, fagiolini fritti, «su trataliù»(ovvero interiora di agnello allo spiedo), uova affogate, ravioli alla genovese (con ingredienti e dosaggio per 60 persone!) sono i suoi cavalli di battaglia. «Per ogni piatto inventava una ricetta diversa – spiegano i cuochi -, era spesso in cucina per dare indicazioni e suggerimenti e carpire i segreti dell’arte culinaria della Sardegna che tanto ha amato».
Una terra che tanto gli ha dato e tanto l’ha fatto soffrire; una terra che aveva completamente sovvertito le sue abitudini. «Quando torni stravolto dai campi – raccontava nel libro Amico fragile a Cesare G. Romana – è come se tutto quel sole ti avesse prosciugato il cervello. Hai dentro una serenità, un appagamento che non lasciano spazio alle tue inquietudini. E poi in campagna partecipi a tante storie reali che ti appagano senza bisogno di raccontarle a nessuno». Una filosofia che ha rafforzato la sua visione poetica e artistica, in cui la canzone vive senza mai svilirsi a mestiere o professione; nasce non a comando ma come intima necessità, senza tempi stabiliti ma con «l’avara urgenza di qualcosa da dire» (Il Giornale).

 

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