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Davide e Golia

Tra gli episodi biblici più famosi dell’Antico Testamento c’è la storia di Re Davide e il gigante filisteo Golia, che terrorizzava e insolentiva gli ebrei, sfidandoli a duello. Dopo quaranta giorni Davide, non potendo più sopportare le offese rivolte alla sua gente, accettò la sfida e riuscì, grazie all’aiuto di Dio, ad avere la meglio sulla forza, tramortendo Golia con un sasso lanciato da una fionda e poi decapitandolo con la spada del gigante.
Chissà se dall’alto della sua rispettabile cultura Gianfranco Fini ha mai pensato a questo passo della Bibbia, un testo che non lo rappresenta in quanto laico, ma di cui è grande conoscitore. Chissà che ha mai percepito la figura di Berlusconi come quella di un gigante, o se ha mai provato quel senso di protezione sovrana verso gli ex An. Certo è che l’immagine calza, almeno quando pensiamo alla grandezza (del consenso) di Berlusconi contro la finezza politica, molto meno ingombrante, del suo avversario. Meno certa è al momento la conclusione di questa lotta di partito: Alemanno ha già fatto sapere che non accetterà una scissione del Pdl, mentre Rotondi lascia intendere l’inevitabile avvicinarsi delle elezioni.
Intanto martedì alla Camera tutta l’area ex an è convocata alla sede del gruppo Pdl di Montecitorio per una riunione preparativa all’incontro nazionale previsto per giovedì.
In pochi possono sapere veramente come andrà a finire, in certi casi può essere determinante anche una telefonata, ma quello che più ci interessa è analizzare la resa di Fini a qualche giorno di distanza, quando le emozioni lasciano in posto alla lucidità.
Il suo non è stato il comportamento di un vero lottatore, di quelli senza macchia e senza paura. In questi giorni Fini ha lasciato al caso qualsiasi tatticismo facendo prevalere quello spirito gerarchico che lo insegue e lo affoga dagli albori del Msi fino alla conversione verso la ‘destra nuova’. E’ un uomo che aspira al cambiamento, ma non accetta cambiamenti interni. Un uomo poco avvezzo al leaderismo di popolo e più affezionato alla fedeltà che ha sempre cercato nella storia del suo partito e  tra gli uomini che ne hanno fatto parte. Per chi avesse creduto veramente in un Presidente della Camera affetto da un sentimento egualitario ha sbagliato: Fini non sopporta la mancanza di rispetto verso i ruoli e la gerarchia, ama ancora il concetto di fratellanza che c’è dietro il cameratismo, vede la politica come un bilancio tra passione e fatica, dove la soddisfazione non è raggiungere la cima, ma è conoscerne a fondo ogni scalino. Per questo molti lo considerano il politico per eccellenza, perché non ha mai voluto cambiare il rispetto della politica, tentando piuttosto di impartire una nuova politica del rispetto.
Ma quel gigante di Berlusconi, tanto grande quando tutto l’amore della sua gente e del suo Paese, lo ha spiazzato. Con la fine della Prima Repubblica la classe politica ha assunto sempre meno spessore agli occhi della gente, tanto da indurla alla scelta di un unico leader. Purtroppo per Fini questa scelta, indiscutibile, voluta dalla gente, assecondata dalla storia e confermata dalle leggi ha apportato cambiamenti devastanti, tanto da dividere per la prima volta il consenso politico dal consenso popolare.
Il Pdl è un partito fasciato, questa non è una novità per nessuno, ed è retto da un solo uomo, ma quello pesa di più non è la figura del Premier, ma è l’assetto del Pdl, un assetto che lascia poco potere decisionale e che fonda le basi su un coordinamento commissariato, poco presente e troppo elitario. Da lì è nata la furia di Fini.  Da anni di militanza, di battaglie e di rispetto ne ha ricavato un partito affetto da mutismo. Un partito dove gli onorevoli bussano, ma al portone principale non risponde nessuno. Gli onorevoli non pongono più domande perché non trovano risposte. Gli onorevoli cercano il loro Presidente, ma il partito non lo rappresenta.
Così Fini, dopo essersi accorto del grande errore fatto nell’assumere una carica istituzionale che lo ha reso più gradevole, ma anche più vulnerabile, si è ritrovato ‘solo’ con le sue idee e con la sua confusione.
Da qui ha dovuto fare una scelta: salvare la sua idea di partito o salvare il Governo? Dopo mesi di titubanza e frecciatine mediatiche ha scelto la via più destabilizzante: non salverà il Governo.
Non salvare il Governo significa uccidere il gigante, che è tanto grande dall’essere sorretto da 14 milioni di persone che verranno schiacciate quando lui cadrà. Questa metafora è il prezzo che Fini pagherà. Ma resta una domanda: la politica è la gente o è il partito?

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