La sola curiosità che ci resta da soddisfare è quella della coloritura dei capelli che adotterà quest’anno Michele Santoro per Annozero. Da indiscrezioni sarà ancora una gradazione del biondo, dopo l’ossigenato del 2007 e lo stoppa del 2008. Stavolta pare abbia optato per una giallo-oro alla Paris Hilton. Sul resto, nessun dubbio: avremo il solito Santorescu unico depositario della verità e solo custode della libertà di stampa.
Deve ancora comparire – lo farà domani sulla seconda rete – ma già protesta che la patria è in pericolo perché lui non può fare esattamente come vuole. Lo ostacolano, non gli danno carta bianca, gli lesinano i mezzi. Adesso c’è il problema della sua spalla, Marco Travaglio, al quale la Rai non ha ancora rinnovato il contratto. Marco è un po’ il poeta della trasmissione. Faccia e tono da menestrello, recita filastrocche di mezz’ora nelle quali augura la galera a questo o a quello. Senza Travaglio – ha detto ieri Santoro – Annozero non si fa. E giù una serie di improperi al Cav considerato la causa dei tentennamenti, degli ostacoli, di ogni male.
Niente di nuovo. Sono lustri che Michele denuncia complotti per cacciarlo dal video. Però ricompare ogni autunno, puntuale come le piogge. È inamovibile come Bruno Vespa e guadagna quanto lui: una barca di soldi. Però si lamenta, protesta e fa la vittima. Probabilmente è un nevrotico, certamente un caratteriale.
Il biondino, chiamiamolo così anche se si tratta di tintura, si considera il campione della libertà di stampa. Ieri ha detto che Annozero è «la punta del servizio pubblico e ne incarna lo spirito». Immodesto ma, dato il suo ego, perfino morigerato. In passato è stato capace di dire: «Quanto più Santoro c’è sui canali Rai, tanto è più libero il Paese» e ha aggiunto: «Nella storia della Rai io sono quello che ha spostato sempre più avanti il confine della libertà». Poi però si indigna se il Cav si autoproclama migliore premier degli ultimi 150 anni.
In realtà, Santorescu è un giornalista schierato come un hooligan del pallone con l’immobiliarista Di Pietro. Ha meno case di Tonino ma l’identica visione capestro e manette. In venti anni di tv è l’unico, a mia scienza, che abbia messo in moto il meccanismo di un suicidio. Molti ricorderanno quella sera del 23 febbraio 1995 a Tempo reale. Era suo ospite Leoluca Orlando, oggi anche lui con Di Pietro, ma allora sindaco di Palermo e caudillo della Rete, movimento che fiutava mafiosi anche nei buchi del formaggio. In diretta, Orlando accusò di mafiosità il maresciallo dei carabinieri di Terrasini, Antonino Lombardo. Santoro lo lasciò sdottorare a ruota libera senza dirgli, come avrebbe dovuto da giornalista, per di più del servizio pubblico, che l’altro non poteva difendersi perché era assente. Un classico linciaggio. Lombardo, lasciato solo, si uccise qualche ora dopo. Era, come già si sapeva e meglio si seppe dalle indagini successive, totalmente estraneo alle accuse. Un errore del genere, così contiguo alla canagliata, sarebbe costato a chiunque il posto. Michele invece è ancora lì e continua imperterrito nel suo giornalismo sfottente.
Le trasmissioni di Santoro, senza eccezione, sono truccate da capo a piedi. Nel 2002, il Garante delle comunicazioni lo inchiodò.
Analizzando una dozzina di puntate di Sciuscià – uno dei tanti nomi del suo programma sempre eguale – l’Autorità rilevò «gravi violazioni del principio del pluralismo». Lo rimproverò di favorire i politici della sinistra invitati in studio in numero preponderante, circondati da una platea favorevole, liberi di sentenziare a capocchia. Di danneggiare, all’opposto, i politici della destra tagliando loro la parola e sbeffeggiandoli con ammiccamenti al pubblico di parte. Il Garante concluse dicendo che lui, purtroppo, non aveva mezzi legali per fermare Santoro. Chiedeva però alla Rai di condannare il sottogiornalismo del suo dipendente e comminò una multa. Be’, credete che Santorescu si sia contrito e abbia fatto un esame di coscienza? Nemmeno a pensarci. Il biondino, anzi, trasformò la bocciatura nell’aureola del martire. Della serie, parlate male di me, ma parlatene.
Michele è insopportabile a milioni di abbonati ma guai a prendere provvedimenti. Quando il Cav, esprimendo l’opinione di molti, disse che Santoro (con Enzo Biagi e Daniele Luttazzi) faceva «un uso criminoso» della tv pubblica, scoppiò un casino. Era il 2002 e l’esternazione di Berlusconi, allora premier, avvenne a Sofia dov’era in viaggio ufficiale. Subito gli amici di Michele, che nella stampa – e solo lì – sono legione, parlarono di «editto bulgaro». Santoro cavalcò la faccenda con un misto di aggressività e autocommiserazione. «Berlusconi è un vigliacco perché abusa dei suoi poteri per attaccare persone più deboli di lui», disse e aggiunse, privo com’è di senso del ridicolo: «Qui c’è un’analogia col delitto Matteotti», il deputato socialdemocratico assassinato dai fascisti al tempo di Mussolini. Quale fosse l’analogia non lo capì nessuno. Ma tutto fa brodo per autoincensarsi.
Dopo questa serie di sfacciataggini, la Rai cercò di raffreddare le polemiche allontanando per qualche tempo il biondino dai teleschermi. Fossero capitati a me i suoi incidenti, mi avrebbero cacciato per sempre con ludibrio. Michele invece cominciò una piagnucolata che durò tre anni. Urlò: «La mia esautorazione è un crimine politico». Evocò il nazismo: «Eliminare Santoro dalla tv è come bruciare i libri in piazza». Vaneggiò nei modi più vari chiedendo la solidarietà dell’universo mondo e, per andare sul sicuro, chiese «giustizia» al giudice del lavoro.
Fu un colpo da maestro, vista la magistratura che ci ritroviamo. La toga gli dette ragione su tutta la linea, stabilendo il principio che la Rai non poteva scegliere a chi dare o a chi togliere i suoi spazi. Condannò l’ente a riprendersi Michele, a ridargli il posto in prima serata e versargli un milione e passa di euro di risarcimento. L’unico a tenere i piedi per terra fu il presidente dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, che commentò: «Con un Santoro emarginato a un miliardo e mezzo di vecchie lire, ci sono in Rai un migliaio di precari che non arrivano a prendere il suo stipendio tutti quanti insieme».
Ma c’è un altro risvolto. In attesa della sentenza di reintegrazione Santoro si era fatto eleggere deputato dell’Ulivo a Strasburgo nel 2004. Erano sempre 25mila euro e passa mensili. Perché rinunciarci? Intascò infatti la prebenda per 18 mesi. Ma appena il giudice ne ordinò la riassunzione piantò baracca e burattini per tornare in tv. Settecentocinquantamila elettori che lo avevano spedito in Parlamento per cinque anni restarono con un palmo di naso. E noi ce lo siamo ritrovato in casa, ossigenato come un vecchio play boy, a strologare di libertà di stampa.
Anche qui va fatta chiarezza. Questo campione dell’informazione che si arroga il diritto di denunciare «senza guardare in faccia nessuno» e frugare nei cassetti di chiunque, non tollera però di essere toccato a sua volta. Michele un produttore industriale di querele. Se non passa alle querele, sono comunque minacce.
Quando il settimanale Panorama chiese di seguirlo nella campagna elettorale europea, uno delle sue spalle, il cronista Sandro Ruotolo, sibilò all’inviata: «Solo a patto che ci facciate leggere prima le cose che scrivete. Se, secondo noi, l’articolo non va bene, lo cambiamo. Se non accettate, niente articolo». Mentre dettava le condizioni, campeggiava dietro di lui lo slogan elettorale scelto dall’araldo della libera stampa: «Per un’espressione libera: vota Santoro». Tra i concetti espressi durante i comizi: «Il berlusconismo mi fa schifo», Oriana Fallaci «mi fa vomitare».
Due anni fa, la Voce di Romagna scrisse che il biondino si stava costruendo una megavilla sul Colle di Cavignano in quel di Rimini. Santoro è legato alla zona per via matrimoniale. Sua moglie, Sania Annibaldi, è infatti figlia di uno ricco sanmarinese. Michele querelò il giornale dicendo che la villa era del suocero e che lui a Rimini alloggiava invece al Grand Hotel. La smentita non convinse. Il giornalista Gigi Moncalvo che all’epoca conduceva Confronti su Rai 2, volle vederci chiaro e mandò una troupe a Cavignano. Appena lo seppe, Santorescu andò sulle furie e fece il diavolo a quattro per bloccare l’inchiesta. Telefonò con arroganza al direttore di Rete, Marano, agli autori, agli ospiti fissi. Non cavò un ragno dal buco e passò alle diffide. La trasmissione poi si fece egualmente. Vi sembra comunque il modo di comportarsi di uno che per sé pretende carta bianca? Ricordatevene quando giovedì lo sentirete sproloquiare di libera stampa.
Altro episodio nel novembre dell’anno scorso. Un anchorman di Radio Dimensione Suono, Joe Violanti, imitava in trasmissione la voce di Santoro. Telefonava a personaggi famosi e li invitava ad Annozero. Talmente credibile che quelli ci cadevano. Ovviamente, i radioascoltatori si divertivano un mondo. Il biondino invece si incappiò di brutto. Disse che il gioco lo metteva in difficoltà. Gli fu replicato che era uno scherzo e che alla fine gli ignari erano avvertiti. Ma Santoro non volle sentire ragioni e diffidò Violanti accusandolo, per vie legali, di «furto d’identità». Un’imperdonabile dissacrazione dell’intoccabile.
Ce ne sarebbero delle altre, ma lo spazio stringe. Prima di finire devo comunque spiegarvi perché ho spesso usato il nomignolo di Santorescu. Gli fu affibbiato dalla redazione di Samarcanda, quella in cui debuttò da conduttore negli anni Ottanta.
Ex di Servire il Popolo, ex dell’Unità, Santoro entrò stabilmente in Viale Mazzini imposto da Beppe Vacca, futuro deputato del Pci e allora consigliere della Rai. Gli fu affidata per Samarcanda la guida di un manipolo di giornalisti abbastanza nutrito. Con questi sottoposti, Michele era esigentissimo. Al limite del fanatismo. Alcuni li ripudiò, molti fuggirono. Di qui venne spontaneo chiamarlo con un nome da dittatore romeno. Il più consono per questo campione di tutte le libertà (da IlGiornale).
Deve ancora comparire – lo farà domani sulla seconda rete – ma già protesta che la patria è in pericolo perché lui non può fare esattamente come vuole. Lo ostacolano, non gli danno carta bianca, gli lesinano i mezzi. Adesso c’è il problema della sua spalla, Marco Travaglio, al quale la Rai non ha ancora rinnovato il contratto. Marco è un po’ il poeta della trasmissione. Faccia e tono da menestrello, recita filastrocche di mezz’ora nelle quali augura la galera a questo o a quello. Senza Travaglio – ha detto ieri Santoro – Annozero non si fa. E giù una serie di improperi al Cav considerato la causa dei tentennamenti, degli ostacoli, di ogni male.
Niente di nuovo. Sono lustri che Michele denuncia complotti per cacciarlo dal video. Però ricompare ogni autunno, puntuale come le piogge. È inamovibile come Bruno Vespa e guadagna quanto lui: una barca di soldi. Però si lamenta, protesta e fa la vittima. Probabilmente è un nevrotico, certamente un caratteriale.
Il biondino, chiamiamolo così anche se si tratta di tintura, si considera il campione della libertà di stampa. Ieri ha detto che Annozero è «la punta del servizio pubblico e ne incarna lo spirito». Immodesto ma, dato il suo ego, perfino morigerato. In passato è stato capace di dire: «Quanto più Santoro c’è sui canali Rai, tanto è più libero il Paese» e ha aggiunto: «Nella storia della Rai io sono quello che ha spostato sempre più avanti il confine della libertà». Poi però si indigna se il Cav si autoproclama migliore premier degli ultimi 150 anni.
In realtà, Santorescu è un giornalista schierato come un hooligan del pallone con l’immobiliarista Di Pietro. Ha meno case di Tonino ma l’identica visione capestro e manette. In venti anni di tv è l’unico, a mia scienza, che abbia messo in moto il meccanismo di un suicidio. Molti ricorderanno quella sera del 23 febbraio 1995 a Tempo reale. Era suo ospite Leoluca Orlando, oggi anche lui con Di Pietro, ma allora sindaco di Palermo e caudillo della Rete, movimento che fiutava mafiosi anche nei buchi del formaggio. In diretta, Orlando accusò di mafiosità il maresciallo dei carabinieri di Terrasini, Antonino Lombardo. Santoro lo lasciò sdottorare a ruota libera senza dirgli, come avrebbe dovuto da giornalista, per di più del servizio pubblico, che l’altro non poteva difendersi perché era assente. Un classico linciaggio. Lombardo, lasciato solo, si uccise qualche ora dopo. Era, come già si sapeva e meglio si seppe dalle indagini successive, totalmente estraneo alle accuse. Un errore del genere, così contiguo alla canagliata, sarebbe costato a chiunque il posto. Michele invece è ancora lì e continua imperterrito nel suo giornalismo sfottente.
Le trasmissioni di Santoro, senza eccezione, sono truccate da capo a piedi. Nel 2002, il Garante delle comunicazioni lo inchiodò.
Analizzando una dozzina di puntate di Sciuscià – uno dei tanti nomi del suo programma sempre eguale – l’Autorità rilevò «gravi violazioni del principio del pluralismo». Lo rimproverò di favorire i politici della sinistra invitati in studio in numero preponderante, circondati da una platea favorevole, liberi di sentenziare a capocchia. Di danneggiare, all’opposto, i politici della destra tagliando loro la parola e sbeffeggiandoli con ammiccamenti al pubblico di parte. Il Garante concluse dicendo che lui, purtroppo, non aveva mezzi legali per fermare Santoro. Chiedeva però alla Rai di condannare il sottogiornalismo del suo dipendente e comminò una multa. Be’, credete che Santorescu si sia contrito e abbia fatto un esame di coscienza? Nemmeno a pensarci. Il biondino, anzi, trasformò la bocciatura nell’aureola del martire. Della serie, parlate male di me, ma parlatene.
Michele è insopportabile a milioni di abbonati ma guai a prendere provvedimenti. Quando il Cav, esprimendo l’opinione di molti, disse che Santoro (con Enzo Biagi e Daniele Luttazzi) faceva «un uso criminoso» della tv pubblica, scoppiò un casino. Era il 2002 e l’esternazione di Berlusconi, allora premier, avvenne a Sofia dov’era in viaggio ufficiale. Subito gli amici di Michele, che nella stampa – e solo lì – sono legione, parlarono di «editto bulgaro». Santoro cavalcò la faccenda con un misto di aggressività e autocommiserazione. «Berlusconi è un vigliacco perché abusa dei suoi poteri per attaccare persone più deboli di lui», disse e aggiunse, privo com’è di senso del ridicolo: «Qui c’è un’analogia col delitto Matteotti», il deputato socialdemocratico assassinato dai fascisti al tempo di Mussolini. Quale fosse l’analogia non lo capì nessuno. Ma tutto fa brodo per autoincensarsi.
Dopo questa serie di sfacciataggini, la Rai cercò di raffreddare le polemiche allontanando per qualche tempo il biondino dai teleschermi. Fossero capitati a me i suoi incidenti, mi avrebbero cacciato per sempre con ludibrio. Michele invece cominciò una piagnucolata che durò tre anni. Urlò: «La mia esautorazione è un crimine politico». Evocò il nazismo: «Eliminare Santoro dalla tv è come bruciare i libri in piazza». Vaneggiò nei modi più vari chiedendo la solidarietà dell’universo mondo e, per andare sul sicuro, chiese «giustizia» al giudice del lavoro.
Fu un colpo da maestro, vista la magistratura che ci ritroviamo. La toga gli dette ragione su tutta la linea, stabilendo il principio che la Rai non poteva scegliere a chi dare o a chi togliere i suoi spazi. Condannò l’ente a riprendersi Michele, a ridargli il posto in prima serata e versargli un milione e passa di euro di risarcimento. L’unico a tenere i piedi per terra fu il presidente dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, che commentò: «Con un Santoro emarginato a un miliardo e mezzo di vecchie lire, ci sono in Rai un migliaio di precari che non arrivano a prendere il suo stipendio tutti quanti insieme».
Ma c’è un altro risvolto. In attesa della sentenza di reintegrazione Santoro si era fatto eleggere deputato dell’Ulivo a Strasburgo nel 2004. Erano sempre 25mila euro e passa mensili. Perché rinunciarci? Intascò infatti la prebenda per 18 mesi. Ma appena il giudice ne ordinò la riassunzione piantò baracca e burattini per tornare in tv. Settecentocinquantamila elettori che lo avevano spedito in Parlamento per cinque anni restarono con un palmo di naso. E noi ce lo siamo ritrovato in casa, ossigenato come un vecchio play boy, a strologare di libertà di stampa.
Anche qui va fatta chiarezza. Questo campione dell’informazione che si arroga il diritto di denunciare «senza guardare in faccia nessuno» e frugare nei cassetti di chiunque, non tollera però di essere toccato a sua volta. Michele un produttore industriale di querele. Se non passa alle querele, sono comunque minacce.
Quando il settimanale Panorama chiese di seguirlo nella campagna elettorale europea, uno delle sue spalle, il cronista Sandro Ruotolo, sibilò all’inviata: «Solo a patto che ci facciate leggere prima le cose che scrivete. Se, secondo noi, l’articolo non va bene, lo cambiamo. Se non accettate, niente articolo». Mentre dettava le condizioni, campeggiava dietro di lui lo slogan elettorale scelto dall’araldo della libera stampa: «Per un’espressione libera: vota Santoro». Tra i concetti espressi durante i comizi: «Il berlusconismo mi fa schifo», Oriana Fallaci «mi fa vomitare».
Due anni fa, la Voce di Romagna scrisse che il biondino si stava costruendo una megavilla sul Colle di Cavignano in quel di Rimini. Santoro è legato alla zona per via matrimoniale. Sua moglie, Sania Annibaldi, è infatti figlia di uno ricco sanmarinese. Michele querelò il giornale dicendo che la villa era del suocero e che lui a Rimini alloggiava invece al Grand Hotel. La smentita non convinse. Il giornalista Gigi Moncalvo che all’epoca conduceva Confronti su Rai 2, volle vederci chiaro e mandò una troupe a Cavignano. Appena lo seppe, Santorescu andò sulle furie e fece il diavolo a quattro per bloccare l’inchiesta. Telefonò con arroganza al direttore di Rete, Marano, agli autori, agli ospiti fissi. Non cavò un ragno dal buco e passò alle diffide. La trasmissione poi si fece egualmente. Vi sembra comunque il modo di comportarsi di uno che per sé pretende carta bianca? Ricordatevene quando giovedì lo sentirete sproloquiare di libera stampa.
Altro episodio nel novembre dell’anno scorso. Un anchorman di Radio Dimensione Suono, Joe Violanti, imitava in trasmissione la voce di Santoro. Telefonava a personaggi famosi e li invitava ad Annozero. Talmente credibile che quelli ci cadevano. Ovviamente, i radioascoltatori si divertivano un mondo. Il biondino invece si incappiò di brutto. Disse che il gioco lo metteva in difficoltà. Gli fu replicato che era uno scherzo e che alla fine gli ignari erano avvertiti. Ma Santoro non volle sentire ragioni e diffidò Violanti accusandolo, per vie legali, di «furto d’identità». Un’imperdonabile dissacrazione dell’intoccabile.
Ce ne sarebbero delle altre, ma lo spazio stringe. Prima di finire devo comunque spiegarvi perché ho spesso usato il nomignolo di Santorescu. Gli fu affibbiato dalla redazione di Samarcanda, quella in cui debuttò da conduttore negli anni Ottanta.
Ex di Servire il Popolo, ex dell’Unità, Santoro entrò stabilmente in Viale Mazzini imposto da Beppe Vacca, futuro deputato del Pci e allora consigliere della Rai. Gli fu affidata per Samarcanda la guida di un manipolo di giornalisti abbastanza nutrito. Con questi sottoposti, Michele era esigentissimo. Al limite del fanatismo. Alcuni li ripudiò, molti fuggirono. Di qui venne spontaneo chiamarlo con un nome da dittatore romeno. Il più consono per questo campione di tutte le libertà (da IlGiornale).