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RIFORMIAMO L’IMPIANTO COSTITUZIONALE

La fondazione del Pdl, il dissenso politico e culturale espresso dal cofondatore del nuovo partito, il riproporsi della questione delle correnti, richiedono una discussione seria sulla concezione che abbiamo della politica, della funzione dei partiti, del ruolo dello Stato e delle istituzioni in una moderna democrazia. Nel corso della presentazione della rivista di studi politici, diretta da Alessandro Campi, alla presenza del Presidente della Camera, Gianfranco Fini – una rivista che sul piano dei contenuti potrebbe definirsi berlusconiana -, ho tentato di avviare una riflessione scevra da risentimenti polemici e finalizzata unicamente a costruire solide fondamenta al nuovo partito dei moderati italiani. Per certi aspetti si è trattato di un’occasione sprecata, perché in realtà la rivista offriva importanti e utili stimoli di approfondimento.
Tutto ruota attorno al rapporto tra politica e democrazia, come anche un recente editoriale di Galli Della Loggia ha messo in evidenza. Per quanto riguarda la storia italiana, si può dire che, dal dopoguerra fino all’incirca alla caduta del Muro di Berlino, la democrazia, intesa come il dominio dell’uomo politico, si è identificata con la democrazia dei partiti, fino a configurarsi come una vera e propria partitocrazia.
Questa democrazia dei partiti, va precisato, ha coinciso, soprattutto nel nostro Paese, con una «democrazia debole di tipo consensuale». La democrazia dei partiti si accompagna alla debolezza se non allo svuotamento delle istituzioni democratiche e di governo. Alla caduta del fascismo, la centralità assegnata ai partiti, il rinvio al Parlamento degli accordi interpartitici, con il conseguente contenimento del potere della maggioranza e della capacità di decisione dell’esecutivo, è stato il risultato del timore di colpi di mano nel caso in cui l’una o l’altra parte avesse potuto conquistare il potere.
Questa democrazia con una spiccata presenza dei partiti e una limitata capacità decidente delle istituzioni si è prolungata fino ai giorni nostri. All’introduzione del bipolarismo, infatti, soprattutto in seguito alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, non ha ancora fatto riscontro una conseguente riforma delle istituzioni, né sul piano costituzionale né su quello dei regolamenti parlamentari. Tanto che a processi istituzionali ancora di tipo archeo-parlamentare – come scrive Giovanni Gazzetta – convive uno strisciante «decisionismo dell’emergenza».
Siamo perciò giunti ad un bivio: o si riforma finalmente l’impianto costituzionale adeguandolo a forme di governo democratiche in quanto consentono decisioni democraticamente assunte, oppure continuerà inesorabilmente il processo di logoramento della politica e della sua legittimità democratica.
In questo quadro, occorre porsi anche la questione del ruolo dei partiti relativamente alle istituzioni. Già nel 1952 Adriano Olivetti riteneva che la società e la politica sarebbero state in grado di funzionare senza la mediazione dei partiti. Egli concepiva lo svolgimento della politica all’interno delle istituzioni, ridisegnate in chiave federalista. Questo presupponeva e presuppone una concezione più alta della politica, corrispondente ad una nuova idea della libertà e della democrazia. Un’idea di politica e di democrazia in cui la competenza riveste un ruolo importante.
A mio avviso questo dovrebbe essere il livello della discussione che dovrebbe svolgersi all’interno del nostro movimento politico: riforma delle istituzioni, riforma della politica, formazione di una nuova classe dirigente onesta e competente. Questi sono i punti chiave sui quali dovrebbero cimentarsi tutti coloro che vogliano davvero rappresentare un punto di riferimento per il futuro. Soltanto evocare le correnti, soprattutto dopo le novità introdotte da Berlusconi nella politica in Italia e non solo, a me pare una pericolosa e mio-pe illusione ancora influenzata dai retaggi del passato (Ragionpolitica).

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