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Lo scatto di Conrad verso la libertà

Correva l’anno 1961. Per l’esattezza: il 15 agosto. Due giorni prima era iniziata la costruzione di una barriera in cemento alta circa tre metri e mezzo, lo avevano deciso le massime autorità del suo Paese, la Repubblica Democratica Tedesca. Ufficialmente, dicevano, era un “muro di protezione antifascista”. Per evitare che i suoi concittadini subissero l’aggressione dall’Ovest.
Ma Conrad Shumann, giovane soldato a servizio della Germania Est, probabilmente non accettava, come tanti altri abitanti di una Berlino destinata a isolarsi dal resto del mondo, quella motivazione diffusa del governo.
Era nervoso Conrad, aveva solo 19 anni. Il suo, presumibilmente, fu un gesto di incoscienza. Confuso, impaurito, trovò però il coraggio di tradire la sua uniforme. E invece di controllare l’ordine, sulla nuova e tragica linea di confine, fu lui stesso a scardinarlo. Da soldato a fuggitivo in un secondo. Semplicemente uno scatto, verso quell’altra parte dell’universo: col fucile in spalla, la testa vuota e il cuore in gola. Via verso una speranza. Senza mai voltarsi indietro, senza avere nemmeno il tempo del rimpianto o dell’esitazione. Un attimo, durato un’eternità. E immortalato da un fotografo d’agenzia, in modo che facesse il giro del pianeta per diventare un simbolo, un’icona mediatica.
Il gesto scriteriato di un ragazzo entrava così, senza troppi fronzoli, nella leggenda. Tra le immagini più significative della storia del ‘900.
Conrad non ebbe solo la fortuna della fugace celebrità. Ma anche quella della vita. Altri morirono lì, o peggio ancora scomparirono, nella zona franca fatta di sogni, ma spesso anche di disperazione e orrore.
Terminato finalmente l’attimo si accorse di poter, anche se a fatica, continuare a respirare. Occhi ancora aperti per poter godere il frastuono dei flash e della braccia tese, dell’entusiasmo della quasi incredula polizia militare americana.
La rinascita del giovane soldato dell’Est ebbe un senso, nella Germania occidentale e moderna. Dopo anni difficili, ritrovò la sua strada: grazie a un matrimonio, un figlio e due nipotini. Nella Baviera da sempre simbolo di prosperità. Con un impiego all’Audi, in piena sintonia con l’evoluzione del tempo. Quel tempo che a casa sua qualcuno aveva deciso di fermare.
Poi venne il 9 novembre 1989. E cadde il muro. Ma il ritorno da figliol prodigo non fu come se lo era immaginato da più di 28 anni.
“Tornando – ammise in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera – ho scoperto che da alcuni il mio gesto non è mai stato approvato. Ci sono parenti e vecchi amici che ancora non mi vogliono parlare”.
Nove anni dopo un altro gesto estremo, stavolta fatale: Conrad Schumann decideva di farla finita, in un boschetto non lontano dalla sua abitazione di Kipfenberg. Aveva 56 anni. Per gli agenti giunti sul luogo del misfatto,  un suicidio scaturito da “ragioni private”.
Finiva così la straordinaria avventura, gloriosa e tragica allo stesso tempo, di un uomo  normale che non aveva nessuna intenzione di diventare  simbolo di un’epoca.
La sua voglia di superare il maledetto muro, come quella di tanti altri cittadini della Berlino Est, era forse solo un banale istinto primordiale. Niente di più. Un istinto che la drammaticità degli eventi, come sempre accade, aveva trasformato in un gesto mitico e da ricordare.
Ma Conrad aveva solo 19 anni. E, come tutti i suoi coetanei, coltivava semplicemente un sogno di libertà.

 

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