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L’Italia unita nella Costituzione repubblicana

Nella stretta di mano di qualche giorno fa tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i rispettivi Presidenti di Croazia e Slovenia in ricordo dei 350.000 esuli italiani che lasciarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia c’è l’ennesimo tassello di quel variegato mosaico di riconoscimenti che si devono alla gloriosa tradizione risorgimentale.
Spiace tuttavia che la letizia delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia sia stata adombrata dalle solite polemichette della sinistra per rivendicare a sé una sorta di diritto proprietario al Risorgimento . Quasi che l’unità d’Italia fosse un affare “privato”, la cui rievocazione storica sia ad esclusivo uso e consumo di una fazione politica anziché un’altra. Appiglio pretestuoso adoperato più volte dalla sinistra come grimaldello per puntellare la superiorità filo-risorgimentale è sempre stato il federalismo. In molti, tra i banchi dell’opposizione, si sono stracciati le vesti agitando lo spettro dell’unità minata.
E’ stata tutta una propaganda sterile tesa ad additare le riforme sulla devolution come una sorta di nuova apocalisse che avrebbe creato una spaccatura profonda tra un nord pingue e satollo e un sud povero e abbandonato al suo destino. Ignorando del tutto o quasi che, qualora scarsa saldatura ci sia stata tra nord e sud, le cause sono da ricercare semmai a ritroso nel passato. Un ampio contributo in tal senso fece la riforma tributaria degli anni 70 che, nell’epoca dirigista del compromesso storico, sottrasse agli enti locali e alle regioni l’autonomia tributaria, trasformandone le finanze in un sistema di trasferimenti dal governo centrale.
Nel frattempo, con la riforma sanitaria e la crescita delle competenze urbanistiche, i poteri delegati alle regioni e agli enti locali sono stati enormemente rimpinguati. Lo scollamento fra le spese a livello decentrato e le entrate finanziate dal centro, assieme alle nuove confuse competenze di regolamentazione, ha generato dispendiose strutture burocratiche. La lunga tradizione assistenzialista propalata dai governi centristi durante tutto il corso della Prima Repubblica ha amplificato e distorto la percezione che il sud aveva nei confronti dello Stato.
Il meridione, dal canto suo, si è baloccato per anni nei panni di figliol prodigo abituato a dissipare e scialacquare le ingenti sostanze che gli venivano elargite da uno Stato paternalista sempre zelante nell’aprire le cerniere della borsa e ripianare gli eventuali debiti. Il tutto con l’ulteriore nefando risultato di riempire di malincuore l’animo dei “padani”, stanchi di veder puntualmente frustati dal governo centrale la condotta virtuosa e premiate le inefficienze dei connazionali al sud.
Lontano dagliocchi, lontano dal cuore, recita un adagio popolare. E che anche una questione di disaffezione sia questa benedetta unità nazionale non è del tutto peregrino pensarlo. Un’entità percepita come fredda e autoreferenziale, rannicchiata nella “turris eburnea” dei palazzi romani difficilmente scalderà i cuori e le menti delle comunità, meridionali e settentrionali che siano, lontane dai fasti e le frenesie capitoline.
La riforma federalista dovrebbe aumentare la responsabilità fiscale di questi governi delle comunità, generare reale autonomia nei settori di loro competenza, in base al principio di sussidiarietà per cui i governi pi vicini al cittadino vanno di norma preferiti. Producendo come risultato definitivo una politica meno invisa, gestione virtuosa delle risorse e un progressivo avvicinamento della politica al territorio. Una sola ricetta per cementare l’unità e rendere tutti più felici.  
Il federalismo tuttavia non è la sola riforma cruciale di cui il Paese abbia necessità. La modifica dell’impianto costituzionale è sempre stato uno dei punti chiave su cui il governo Berlusconi ha posto l’accento.
Ma, ahimè, ogni qual volta si sia fatto cenno alla revisione dell’impianto costituzionale , cori di indignazione si sono levati altissimi a gridare al golpe democratico, quasi che la carta costituzionale fosse una sorta di moloch intoccabile, e la legittima facoltà di modifica – espressamente contemplata dalla stessa carta – spregevolissimo peccato di lesa maestà.
Eppure la possibilità di rivedere il dettato costituzionale era emersa già durante la defunta prima Repubblica, quando un Craxi alle prese con i difficili equilibrismi del pentapartito professò l’esigenza di una reale“democrazia decidente”, ovvero un sistema democratico che consentisse l’effettiva azione di governo e sciogliesse le catene di una maggioranza resa monca nella sua fondamentale capacità deliberante.
La nostra Costituzione – è d’uopo ricordarlo – è stata concepita dai padri costituenti in un quadro storico delicatissimo dove l’esigenza primaria era  scongiurare per sempre la minaccia di una nuova dittatura . In una simile congiuntura, con ancora vivissima la ferita del fascismo e del conflitto mondiale appena concluso non poteva che nascere un sistema ingessato, che imbrigliasse dentro una rigida maglia istituzionale i soggetti politici detentori del potere.
Inevitabile anche che il nuovo assetto parlamentare che sarebbe venuto a crearsi non poteva che spostare il baricentro politico dall’esecutivo alla partitocrazia. Quella che derivò fu una “repubblica dei partiti”, come ebbe a definirla Pietro Scoppola, diametralmente opposta al panorama politico odierno. L’implosione della Prima Repubblica, la “discesa in campo” del Cavaliere, la riduzione della frammentazione partitica tramite un mutato sistema elettorale e l’avvento di un bipolarismo sono tutti elementi che hanno radicalmente mutato il quadro in cui la Costituzione trova a operarsi.
Laddove però il contenimento del potere esigeva una capacità deliberante temperata e contenuta, le nuove condizioni politiche richiedono strumenti che consentano al governo l’effettiva realizzazione delle decisioni democraticamente assunte. Riformare la Costituzione, adeguarla all’attuale contesto è una scelta di buon senso che richiederebbe un minor ostruzionismo e una collaborazione trasversale da parte di tutti.
Per il bene dell’Italia unita e di tutti gli Italiani (Il Predellino).

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