Il governo dichiara guerra alla burocrazia. Tremonti e Berlusconi vogliono metter mano all’articolo 41 della Costituzione per favorire la libertà d’impresa.
La proposta del ministro e del premier, per svariati motivi, è passata quasi inosservata. Colpa forse di quelle intercettazioni che monopolizzano, anche attraverso il dibattito sul fatidico ddl Alfano, le pagine dei quotidiani. Per alcuni osservatori si tratta di un semplice annuncio che presto cadrà nel dimenticatoio mediatico e politico. Per altri, i soliti, serve a distogliere le attenzioni dai sacrifici imposti dalla super manovra.
Ognuno dice la sua. Ci sarà tempo e modo, poi, per discutere nello specifico sul metodo. Ci saranno pure i soliti distinguo e i professionisti del “nessuno tocchi la Carta”. La trama è più o meno prevedibile. Ma è il morale della favola che merita un’attenta riflessione. La lotta al burocrazia italica va presa maledettamente sul serio. Perché da essa dipende il destino di un Paese intero. Non solo il suo sviluppo economico, ma anche quello sociale e culturale. E persino morale.
Perché la cattiva amministrazione, la corruzione e la disoccupazione sono fenomeni diversi, ma accomunati da un’unica grande fonte. Tutto nasce da quell’ordinato caos composto da cavilli, leggi inutili, scartoffie, autorizzazioni, file chilometriche, timbri, amici degli amici e via discorrendo verso l’infinito di un universo che imprigiona l’Italia e mortifica la sue energie positive. Cambiare le regole, semplificandole. Deve essere questa la parola d’ordine. Alleggerire lo Stato per renderlo più dinamico ed efficiente. Per arrivare puntuali alle sfide imposte dalla modernità.
Basta non farsi influenzare o addirittura intimorire dai puristi della carta bollata. O dai crociati del “pubblico” che non perdono occasione per demonizzare il “privato”, per ricordare al mondo che furbetti di quartierino ed evasori incalliti stanno tutti dall’altra parte. E vanno puniti, sempre. Bisogna entrare nella logica d’idee – e l’ultima finanziaria rappresenta già un bel passo avanti – che senza le piccole e medie imprese, senza quelli che lo stipendio è da sudare e non da aspettare, lo Stato non c’è. Che è il privato che permette la sopravvivenza del pubblico e non il contrario.
E che quest’ultimo ha motivo di esistere solo se svolge la sua attività di amministrazione, gestione e controllo. Ma non può essere il motore delle nuove generazioni o una meta occupazionale. Di ammortizzatori sociali ne abbiamo avuti già abbastanza. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per questo la lotta alla burocrazia (con annessa libertà d’impresa) è bella. Non perché fa tanto liberale (termine abusato e svuotato), ma perché serve davvero come il pane. Soprattutto a quei giovani che ancora non sanno quale destino gli riserva l’Italia che verrà.
La proposta del ministro e del premier, per svariati motivi, è passata quasi inosservata. Colpa forse di quelle intercettazioni che monopolizzano, anche attraverso il dibattito sul fatidico ddl Alfano, le pagine dei quotidiani. Per alcuni osservatori si tratta di un semplice annuncio che presto cadrà nel dimenticatoio mediatico e politico. Per altri, i soliti, serve a distogliere le attenzioni dai sacrifici imposti dalla super manovra.
Ognuno dice la sua. Ci sarà tempo e modo, poi, per discutere nello specifico sul metodo. Ci saranno pure i soliti distinguo e i professionisti del “nessuno tocchi la Carta”. La trama è più o meno prevedibile. Ma è il morale della favola che merita un’attenta riflessione. La lotta al burocrazia italica va presa maledettamente sul serio. Perché da essa dipende il destino di un Paese intero. Non solo il suo sviluppo economico, ma anche quello sociale e culturale. E persino morale.
Perché la cattiva amministrazione, la corruzione e la disoccupazione sono fenomeni diversi, ma accomunati da un’unica grande fonte. Tutto nasce da quell’ordinato caos composto da cavilli, leggi inutili, scartoffie, autorizzazioni, file chilometriche, timbri, amici degli amici e via discorrendo verso l’infinito di un universo che imprigiona l’Italia e mortifica la sue energie positive. Cambiare le regole, semplificandole. Deve essere questa la parola d’ordine. Alleggerire lo Stato per renderlo più dinamico ed efficiente. Per arrivare puntuali alle sfide imposte dalla modernità.
Basta non farsi influenzare o addirittura intimorire dai puristi della carta bollata. O dai crociati del “pubblico” che non perdono occasione per demonizzare il “privato”, per ricordare al mondo che furbetti di quartierino ed evasori incalliti stanno tutti dall’altra parte. E vanno puniti, sempre. Bisogna entrare nella logica d’idee – e l’ultima finanziaria rappresenta già un bel passo avanti – che senza le piccole e medie imprese, senza quelli che lo stipendio è da sudare e non da aspettare, lo Stato non c’è. Che è il privato che permette la sopravvivenza del pubblico e non il contrario.
E che quest’ultimo ha motivo di esistere solo se svolge la sua attività di amministrazione, gestione e controllo. Ma non può essere il motore delle nuove generazioni o una meta occupazionale. Di ammortizzatori sociali ne abbiamo avuti già abbastanza. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per questo la lotta alla burocrazia (con annessa libertà d’impresa) è bella. Non perché fa tanto liberale (termine abusato e svuotato), ma perché serve davvero come il pane. Soprattutto a quei giovani che ancora non sanno quale destino gli riserva l’Italia che verrà.