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La Sicilia di Tornatore, vera anche senza mafia

Venezia – Dovremo essere grati a Giuseppe Tornatore per aver dimostrato in modo inoppugnabile, nonostante i malumori di alcuni critici, come la Sicilia, attraverso il «campione» di Bagheria, sia stata sfigurata nel tempo di una vita poco più lunga della nostra. Qualunque interpretazione si dia di Baarìa, anche nelle sue contraddizioni formali e nell’assenza di morale (non poteva mancare l’obiezione di maniera: una Sicilia epica e scolastica. Ma dov’è la mafia?) non si può negare la capacità di Tornatore di tradurre in immagini potentemente evocative sentimenti e ricordi. Se manca la mafia o se mancano (osservazione snob) gli aristocratici di sofisticata e antica saggezza di memoria gattopardesca, è perché Tornatore racconta quello che ha visto, vissuto, sentito. Più che Tomasi di Lampedusa i suoi riferimenti sono Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, tra ragione e sensualità.
Il film esprime sovrabbondanza d’amore e malinconia struggente per arginare le quali Tornatore sceglie il facile espediente di trasferire tutto nel sogno del protagonista bambino che giustifica la dimensione favolosa, fino allo stridente contrasto di farlo risvegliare nella Bagheria tragicamente trasformata dalla selvaggia speculazione edilizia che consuma il suo ciclo ristrutturando la sua casa di bambino epicentro della storia che ha resistito per sette decenni. Con pazienza e passione Tornatore ha ricostruito la Bagheria degli anni ’30, ’40, ’50, ha ripercorso le campagne, inoltrandosi fino a quella più vicina degli anni ’60, fino al boom edilizio che l’ha sconvolta. Il paradiso garantito dalla miseria riempie gli occhi con una traboccante vitalità: è l’entusiasmo che Tornatore aggiunge a immagini che sembrano ricavate dal repertorio di fotografie Alinari, opportunamente rielaborate a colori, dai magnifici documentari di Vittorio De Seta. Ma De Seta registrò la realtà e Tornatore è costretto a ricostruirla, anche con un compiacimento proustiano, con il romanticismo della memoria. Nessuno può vedere il film senza pensare a quanto si è perduto per ignoranza, per avidità. Le immagini finali riprese nella Bagheria vera sono la prova pasoliniana di corruzione, mafia, responsabilità politiche. Tornatore la mafia non l’ha incontrata ma la restituisce in modo esemplare nella figura dell’assessore all’urbanistica cieco che mette le mani sul plastico della città. Tornatore non è un regista di denuncia, e dunque la chiave del film, attraverso la quale ci è consentito di vedere lo strazio della Sicilia, che sopravvive soltanto nella resistenza della lingua, è nella storia d’amore. Sullo sfondo di tanti personaggi in ruoli marginali, aneddotici, patetici, comici, commoventi, tragici, affidati anche a grandi interpreti, si stagliano due esordienti, perfetti nella loro bellezza ed eleganza naturali, per lo scenario che abbiamo descritto. Amore e passione nel corso di una vita con l’accorgimento di invecchiare Peppino (Francesco Scianna) e Mannina (Margareth Madè).
Con un supremo atto di amore Tornatore racconta la storia dei propri genitori tra difficile realtà e ideali. Cinquant’anni di storia familiare, di vite semplici e di passione civile vissuta attraverso il punto di vista del padre e, in anni più recenti, l’esperienza diretta, il ’68 (nel caso di Tornatore piuttosto il ’77), fino alla partenza del futuro regista per Roma staccandosi da una terra, l’equivalente di ciò che fu la Romagna per Fellini. Dalla Sicilia si parte per tornare con la memoria e la figura più convincente non poteva che essere quella della madre, idealizzata quanto si voglia e perfino statuaria, nella bravissima Margareth Madè, orgogliosa, imperturbabile. Bella come la Sicilia perduta, come il paesaggio incontaminato, come le tre cime toccate dal sasso lanciato da Peppino in un rito finalmente compiuto. Ma troppo tardi, quando non c’è più spazio per le illusioni e della Bagheria vista dall’alto come in un sogno non restano che sparsi frammenti fra le rovine (da Il Giornale).

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