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Il conflitto di interesse delle first ladies filantrope

Fondi sovrani negli Emirati, finanza islamica, gas naturali, compagnie aeree low cost, televisioni satellitari, sono alcuni dei settori economici in ascesa nel mondo arabo e i più scrutinati dalla stampa occidentale. C’è però un altro settore non tanto appariscente ma alquanto strategico e dinamico che invece non viene gettonato né dai media occidentali né da quelli locali: il non profit arabo. La filantropia araba è una realtà in forte mutamento ed espansione.
Da circa due decenni a questa parte sono nate diverse fondazioni private finanziate da businessman arabi e dai figli di immigrati arabi americani di seconda e terza generazione; i governi si affidano sempre di più alle Onlus locali e le Ong internazionali per intervenire in settori come la sanità e l’educazione; il mondo non profit americano sta investendo in formazione e know-how in vari paesi arabi; gli Emirati stanno mettendo a disposizione considerevoli fondi; c’è una crescita della produzione saggistica di libri specializzati nel non profit, ricerche filantropiche, siti internet sull’associazionismo, e sono in aumento i corsi di specializzazioni, le laurea in filantropia e in cooperazione e sviluppo presso università arabe. C’è anche un tentativo di fare sinergia.
L’Arab Foundations Forum ( AFF) è una recentissima realtà associativa composta da giovani professionisti arabi che cerca di sopperire a uno dei più grandi deterrenti della filantropia araba, quella di fare network, di mettere in contatto competenze, passioni, soluzioni, di documentare e valorizzare le best practice, e di massimizzare la comunicazione sulle fonti di finanziamento e le opportunità di formazione. Il sistema non riesce ancora a integrare le potenzialità dei differenti soggetti e fa fatica a mettere le capacità dei giovani talenti al servizio delle comunità. I motivi più evidenti sono le infrastrutture non sviluppate, le ampie zone desertiche che rendono gli spostamenti scomodi e disagevoli, le condizioni climatiche, e le lunghe distanze fra centri urbani e villaggi. Ci sono poi motivi antropologici come la soggettività dell’organizzazione del tempo, la priorizzazione delle attività, la debolezza della cultura dello spirito di squadra. Meno evidenti, ma non per questo meno determinanti, i motivi legati alle percezioni.
L’arabo medio collega lo sviluppo sostenibile alla solidarietà. Meglio dare un lavoro anche umile a una persona bisognosa piuttosto che continuare a finanziare i pasti dei suoi figli. Nonostante gli insegnamenti del profeta Maometto e alcuni ingredienti della cultura araba come la solidarietà e l’ospitalità, l’indole degli arabi inibisce l’efficacia della filantropia. Per la maggioranza della gente lo spirito solidale emerge solo in periodi ciclici come durante il Ramadan o le festività cristiane. Sono quelle le occasioni che fanno l’uomo benefico pronto a donare i propri denari per soddisfare le necessità più contingenti dei bisognosi come il cibo e i vestiti ma a discapito di quelle strategiche come l’educazione, la sanità e la creazione di lavoro. Pertanto il flusso delle donazioni passa più facilmente di mano in mano che da persone a fondazioni, privilegiando così la carità sullo sviluppo. Un’altra percezione riguarda la non professionalità delle fondazione arabe. Esse fanno fatica ad ottenere fondi perché non sono trasparenti, non fissano parametri di auto valutazione, non comunicano l’efficacia del loro lavoro e non riescono a portare a termine certi progetti in quanto la maggior parte del budget è speso in consulenze esterne. E’ come se lavorassero per loro stessi e parlassero tra di loro.
Molti arabi sono anche scettici nei confronti delle Ong perché ai loro occhi esse non appaiono come soggetti indipendenti ma piuttosto come parte della grande famiglia politica amministrativa del Paese, una sorta di estensione filantropa della politica. Et pour cause. Anche qui siamo al conflitto di interessi. Infatti le più grandi fondazioni arabe sono legate agli establishment politici e se ne guardano bene di investire in tematiche e competenze che abbiano a che fare con democracy advocacy, libertà dei media, diritti umani, political leadership. Pur di non pronunciare la parola democrazia, le first ladies arabe, tutte presidentesse e fondatrici di qualche grande fondazione, hanno addirittura coniato un neologismo.
In occasione della seconda conferenza sulle donne arabe tenutasi ad Abu Dhabi lo scorso novembre, Susanna Mubarak, Rania di Giordania e company hanno dato sfoggio di nuove iniziative per l’emancipazione della donna araba e sostituito il termine democrazia con quello di “sicurezza umana”. “Essa, la sicurezza umana, riunisce le sfide e gli argomenti che vanno dalla sicurezza, ai diritti umani, al good governance all’ambiente, alla lotta contro la povertà a alle pari opportunità” ha detto la Sheikha Fatima Bint Mubarak moglie del defunto emiro di Abu Dhabi Sheikh Zayed Bin Sultan parlando a nome delle altre first ladies. Ci voleva tanto a dire democrazia? (Da il Sole24Ore)

 

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