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Di fronte alla Sindone

Di fronte alla Sindone. Di fronte a quel telo che racconta la storia di un «uomo dei dolori». Di fronte a quel lenzuolo che, come ha detto Papa Ratzinger, è l’«icona del mistero del Sabato Santo», cioè del mistero del «nascondimento di Dio», che «interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita». Nel silenzioso percorso che dai giardini di Palazzo Reale porta fino al Duomo di Torino, ho riletto proprio quelle parole di Benedetto XVI, il testo della meditazione pronunciata dal Pontefice il 2 maggio scorso dinanzi al «sacro lino». Parole che aiutano a comprendere che davvero la Sindone «parla», e che veramente essa ha qualcosa da dire a chi la osserva col cuore carico di domande e di attese. La Sindone parla con le tracce del sangue dell’uomo flagellato, con i segni della corona di spine posta sul suo capo e dei chiodi con i quali egli fu trafitto, con l’impronta della ferita sul costato. Parla di una storia di sofferenza, di un corpo piagato dalle percosse e dalla tortura, di un supplizio tremendo, di un inimmaginabile dolore. Parla di un’umanità sconfitta, di un uomo che muore schiacciato dal peso del male, di un’esistenza distrutta dalla crudeltà. Per spiegare di che cosa si tratta, Papa Benedetto ha fatto ricorso a un paragone: quello con le tragedie del Novecento, delle due guerre mondiali, dei lager e dei gulag, di Hiroshima e Nagasaki. Ed è arrivato a citare il Nietzsche del «Dio è morto. E noi l’abbiamo ucciso», ricordando che questa celebre espressione «è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo». Sembrerebbe azzardato accostare il Golgota e Auschwitz, eppure davvero essi sono i luoghi in cui raggiunge il suo culmine la domanda delle domande: c’è un senso a tanta sofferenza? Ha un significato un dolore così grande? Esiste una risposta più forte del male? C’è un’ultima parola che vada oltre l’apparentemente invalicabile confine della morte? Dio, se c’è, è veramente provvidente nei confronti dell’uomo?
E’ a questo livello profondo e drammatico che si colloca anche la questione della Sindone, non soltanto come reliquia, ma come testimonianza, come «icona». Detto in altri termini: è certamente importante sapere se il «lenzuolo» abbia avvolto realmente l’uomo Gesù di Nazareth (e nessun risultato delle più recenti ricerche scientifiche sembra smentire tale ipotesi), ma ancora più importante è poter aprire la propria vita a ciò che esso rappresenta secondo la tradizione cristiana: un Dio che ha risposto alle domande più incalzanti nel cuore dell’uomo non con una teoria, non con un manuale filosofico, e neppure con una religione, ma offrendo tutto se stesso, condividendo fino in fondo la condizione umana, facendosi uomo, vivendo tra gli uomini, soffrendo, morendo, risorgendo per la loro salvezza. Che è salvezza dalla disperazione, dal nulla che sembra inghiottire tutte le cose, dal male che sembra divorare ogni barlume di felicità.
Se si lasciano scorrere su quei pochi metri di lino le parole e le immagini narrate dai Vangeli, se si scorgono tra gli intrecci del tessuto i momenti del Pretorio, del Calvario e della Croce, la flagellazione, le percosse, gli sputi, la Via Crucis, il grido di Gesù al Padre, la canna con il panno imbevuto d’aceto, gli ultimi istanti della vita del Nazareno, allora «il mistero più oscuro della fede», come ha detto il Papa, può diventare «il segno più luminoso di una speranza che non ha confini», perché nella «terra di nessuno tra la morte e la resurrezione» che è il Sabato Santo è entrato «Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo».


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