«Un vecchio che muore è come una biblioteca che brucia», dice un grande scrittore. Ma con la scomparsa di Tullio Kezich è bruciata anche una cineteca. E la prossima Mostra di Venezia si aprirà nel lutto per chi aveva sceneggiato, a partire da un racconto di Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi, Leone d’oro 1988. Figlio di un avvocato antifascista di Trieste, il giovane Tullio era nato nel 1928, ormai in pieno regime totalitario, dunque in un momento delicato per la famiglia. Poi c’era stata la guerra e molti altri triestini, inclusi lui e il coetaneo Lelio Luttazzi, avevano rischiato la vita prima sotto il bombardamento angloamericano del giugno 1944, che fece una strage; poi sotto l’occupazione titina del maggio 1945, che ne fece un’altra (le foibe). Esperienze crudeli. Kezich ne uscì democratico, versione socialista-patriottico. Già questo era un motivo per volergli bene. Ricordo d’aver visto Tullio per la prima volta al Festival di Cannes del 1978. Claudio Quarantotto – critico d’origini istriane e di avverse idee politiche, almeno sul socialismo, rispetto a quelle di Tullio – me lo indicò: «È fra i rari galantuomini di quest’ambiente». A Trieste Kezich tornava spesso. Nel 2005 partecipai alla serata in suo onore ideata da Furio Bordon e promossa dall’assessore Massimo Greco. Era l’occasione per riproporre uno stile in una città dove lettura e cinema trovano folle di solitari. Del resto Tullio visse di cinema.
Cominciò da liceale, mandando lettere che erano già articoli a riviste specializzate. Film l’invitò in redazione, a Roma per assumerlo, salvo scoprire che quel brillante collaboratore aveva quindici anni! L’occasione per lavorare Tullio l’ebbe dopo, grazie alla stazione radio delle autorità d’occupazione a Trieste. E a vent’anni s’aprì per lui la stagione dei grossi festival, Cannes e Venezia (quello di Berlino non c’era ancora). Intanto era stato segretario di produzione nel film di Luigi Zampa sulla drammatica questione del confine in Istria: Cuori senza frontiere (1950), con Gina Lollobrigida e Raf Vallone. Fra le comparse c’è un tenente jugoslavo: è Kezich. Nel Posto di Ermanno Olmi (1961) sarà un esaminatore psicotecnico. Per quanto a Kezich piacesse identificarsi con James Cagney, non era davanti alla macchina da presa che l’attendeva il futuro.
Si ricordano sempre i produttori importanti come Carlo Ponti e Dino De Laurentiis; ebbene, Kezich è stato un produttore intelligente. Fondata la «22 dicembre» (data in cui si giunse alla firma dal notaio dell’atto costitutivo), lavorò a una serie di gioielli: Il terrorista di Gianfranco De Bosio, con Gian Maria Volonté e Anouk Aimée; I basilischi di Lina Wertmüller, con Antonio Petruzzi e Stefano Satta Flores; La rimpatriata di Damiano Damiani, con Walter Chiari e Riccardo Garrone; Una storia milanese di Eriprando Visconti, con Danielle Gaubert e Romolo Valli; I fidanzati di Ermanno Olmi, con Carlo Cabrini e Anna Canzi. Jean Toschi Marazzani Visconti, che partecipò a quell’esperienza, maturata nell’ambito dell’industria privata elettrica Edison, mi dice: «È stato un felice tentativo di fare cinema da Milano con persone colte di buone maniere, che non guardavano gli altri dall’alto in basso». L’opposto di Cinecittà… Non furono successi di pubblico? Ma sono stati inizi importanti per registi e attori poi famosi. E Il terrorista, ambientato a Venezia, è uno dei rari film che spieghino senza retorica guerra civile e guerra di liberazione sotto l’occupazione tedesca dell’Italia. Se si vogliono i successi di pubblico nella carriera di Kezich produttore, basta ricordare la serie tv da lui prodotta per la Rai: Sandokan di Sergio Sòllima, con Kabir Bedi e Carole André. Ma anche per la tv Kezich restò fedele alla sua idea di cinema, dando a un Roberto Rossellini ormai a fine carriera l’occasione per fare ancora L’età del ferro. Del Kezich critico e dello storico del cinema sono tuttora presenti articoli e libri. L’amicizia con Federico Fellini e con Dino De Laurentiis gli ispirò vari libri, come del resto il genere cinematografico che gli fu più caro: il western. Ne scrisse a distanza di decenni, opere rinnovate e comunque mai invecchiate. Non prese mai però i sogni per la realtà e la sua vita è stata segnata dall’amore per Lalla, che lo lasciò vedovo, e per Alessandra, che ha trascorso con lui i festival degli ultimi vent’anni.
Un critico visto fino ad allora solo da lontano può determinare la vita di un altro? Può. Nel 1982 morì Henry Fonda. Kezich ne scrisse un profilo sulla Repubblica, evocandone la tipica falcata che aveva segnato un’epoca del cinema. Giorni dopo, nella prova scritta dell’esame da giornalista, citai quel passo. Ebbi la lode.
Articolo tratto da ilGiornale del 18 agosto 2009