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Un volto per la Parola

Rappresentare Gesù sul grande schermo è sempre stato un problema non di poco conto. Contemperare la dimensione storica con quella religiosa, per fare un discorso che si rivolga a tutti, e quindi non solo ai fedeli, si è spesso rivelato più difficile del previsto. Così come adottare strumenti espressivi che siano allo stesso tempo efficaci e pienamente rispettosi della lettera evangelica.
Il cinema degli albori, capace di far scappare le platee di fronte all’arrivo di un treno sul grande schermo, portava ancora con sé quell’aura di epifania che ben si prestava alla rivelazione cristiana. Non a caso uno dei padri della rivoluzionaria invenzione, Georges Méliès, firmò nel 1899 Cristo che cammina sulle acque, in cui rappresentò l’episodio evangelico con un gioco di sovraimpressioni che doveva rendere, come poi non sarebbe più capitato, la sensazione del miracolo. Una volta persa la purezza dello sguardo dei primi spettatori, però, l’affinità elettiva fra schermo e immagine cristiana cominciò a complicarsi.
Il cinema muto continuava ad avere il vantaggio di non dover sviluppare una vera e propria drammaturgia, il che dava legittimamente sfogo a suggestioni pittoriche a volte anche esagerate. Nell’italiano Christus (1916), firmato da quell’Enrico Guazzoni che è stato un pioniere dei kolossal con film come Quo Vadis? (1913), la vita di Gesù è raccontata praticamente come una carrellata di quadri, con riferimenti espliciti alle opere di Leonardo, Perugino, Correggio, Michelangelo. Sempre per quanto riguarda l’epoca del muto, il Ben-Hur di Fred Niblo (1925) si concede un prologo sulla natività molto più lungo di quello, elegante ma forse sin troppo ellittico, presente nella più famosa versione di William Wyler (1959), creando una sequenza che insospettabilmente rimane a tutt’oggi una delle pagine evangeliche più belle viste al cinema anche grazie all’uso di un primordiale Technicolor.
Con l’avvento del sonoro, persa definitivamente la centralità dell’immagine, le cose si complicarono ulteriormente. Un escamotage spesso usato nel genere peplum è stato quello di lasciare la figura di Cristo sullo sfondo pur sottolineandone l’influenza sulla vicenda principale e sul destino dei personaggi. È il caso proprio del Ben-Hur di Wyler, in cui il volto del Messia non viene mai mostrato, ma la diffusione del suo verbo contribuisce a incrinare definitivamente il rapporto fra l’eponimo protagonista e il suo amico romano Messala. Una scelta intelligente ed efficace – nonché di grande suggestione – volta però a eludere, più che a risolvere, il problema della rappresentazione di Cristo.
Un problema che in epoca più recente si è concretizzato in questo paradosso:  le produzioni che più si sono preoccupate di rendere un’immagine rispettosa della pagina evangelica si sono inevitabilmente rivelate insipide dal punto di vista espressivo; quelle che sembravano nate in parziale o totale deroga alla lettera delle Sacre Scritture o addirittura con intenti scandalosi – in seguito però ridimensionati quando non del tutto sgonfiati – si sono al contrario rivelate più efficaci nell’inoltrarsi al di là della patina agiografica per azzardare una coraggiosa analisi psicologica del Cristo uomo. Nel primo caso rientrano film come il kolossal hollywoodiano La più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), Il messia di Roberto Rossellini (1975), Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (1977), o il molto più recente e fascinoso Nativity di Catherine Hartdwicke (2006). Tutte opere di cui si apprezza la funzione didattica, molto meno la timida dimensione drammaturgica ed espressiva, preoccupata prima di tutto di non scontentare nessuno.
Al contrario, un taglio apparentemente molto più disinvolto si è invece rivelato funzionale a esprimere con maggior forza lo spirito di alcuni passaggi fondamentali della vita di Gesù in Jesus Christ Superstar (1973). La versione cinematografica della rock-opera di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice firmata da Norman Jewison contiene alcuni momenti davvero toccanti anche grazie alle splendide canzoni che accompagnano le immagini. In nessun altro film sull’argomento, in particolare, viene descritto altrettanto bene il sentimento di amore-odio da parte di Giuda nei confronti di una figura che egli accusa di scarso piglio politico, ma che non di meno istilla ogni giorno in lui un nuovo modo di inquadrare le cose, benché destinato a essere recepito troppo tardi. L’altro episodio significativo, e curiosamente anch’esso trascurato altrove, è quello che descrive le ore precedenti alla crocifissione, in cui la dimensione umana di Cristo si rivela con maggior prepotenza attraverso la paura di essere stato abbandonato dal Padre.
Un altro tentativo di andare oltre la patina agiografica, in modo stavolta sin troppo azzardato, è stato L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese (1988), che merita comunque un discorso a parte in quanto non tratto dai Vangeli ma da un romanzo di Nikos Kazantzakis. Se desta comprensibilmente turbamento l’immagine di Cristo che – in una sorta di allucinazione – scende dalla croce per dedicarsi a una vita da uomo normale, essa svolge altresì un ruolo catartico per quella dell’epilogo, in cui il Messia riacquista la piena convinzione nella propria missione.
A ben vedere, d’altronde, l’umanizzazione di Cristo – una strada inaugurata già nel 1961 da Il re dei re di Nicholas Ray, sorta di rilettura politica delle origini cristiane – è un aspetto su cui il cinema contemporaneo si è soffermato con sempre maggiore evidenza. Come dimostra il recente La Passione di Cristo di Mel Gibson (2004), che a dispetto di una cura filologica arrivata addirittura all’uso dell’aramaico e del latino nei dialoghi e di raffinati rimandi testuali e iconografici, rende un’immagine non così tradizionale delle ultime ore del Messia. Colpisce in particolare la scelta di sottolineare la corporeità di Cristo attraverso estenuanti dettagli della carne dilaniata prima dalle frustate e quindi dalla corona di spine e dai chiodi della croce, a contrasto con l’immagine di un diavolo dall’aspetto al contrario insolitamente ascetico.
Un equilibrio di deroghe e di fedeltà alla tradizione evangelica era stato invece Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964). In esso si trovano elementi provenienti da un’ispirazione eterogenea che riflette la personalità e le contraddizioni del suo autore:  l’uso di attori non professionisti anche in ruoli importanti – gli intensi volti delle periferie che già avevamo visto nei suoi primi film – accanto a strumenti espressivi colti come la musica di Bach, un Cristo piuttosto ascetico e sostanzialmente fedele all’iconografia all’interno dell’ambientazione suggestiva ma spuria dei Sassi di Matera (poi ripresa da Gibson), la messa in scena spartana e i riferimenti alla pittura antica.
Ma se in questa scelta di umanizzazione si intravede un prepotente tentativo di recuperare l’antico rapporto elettivo fra schermo e immagine cristiana, il cinema spesso si è comportato meglio quando, più sottilmente, ha deciso di inserire le parabole evangeliche in vicende dei nostri giorni, come dimostrano le imitationes Christi firmate da tre grandi registi molto diversi fra loro:  La croce di fuoco (1947) di John Ford, Diario di un curato di campagna (1950) di Robert Bresson e Nazarin (1958) di Luis Buñuel, in cui la vicenda e la Passione di Cristo rivivono attraverso le sofferte storie di tre sacerdoti (Osservatore Romano).

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