Ken Loach che firma una commedia è una novità tale da scatenare la curiosità dei critici e di quanti ne hanno finora apprezzato l’impegno politico e sociale. Ma fin dalle prime scene Il mio amico Eric si svela per quello che è: un altro film dedicato alla classe operaia, alla quale il regista ha dedicato più di una pellicola. Ne ha raccontato le vicissitudini quotidiane, i problemi, le lotte. Lo ha fatto prendendone le difese, denunciando soprusi e ingiustizie. Stavolta Loach cambia registro, usando l’inusuale leggerezza della commedia, a tratti amara tuttavia, e sempre con lo sguardo attento di chi sa come descrivere i destini della gente comune.
La storia si concentra sulle difficoltà di un uomo, Eric Bishop, postino di Manchester, la cui vita sta andando in pezzi, ha perso la fiducia in se stesso e ha gettato la spugna: la seconda moglie lo ha lasciato con due figli adolescenti avuti da precedenti relazioni e con i quali praticamente non ha un rapporto, è in preda alla depressione e ha appena avuto un incidente d’auto dal quale stenta a riprendersi. Ma ancor di più c’è il passato a tormentare Eric; un passato che non riesce ad affrontare e a superare: trent’anni prima scappò di casa abbandonando la moglie Lily con la figlia appena nata.
Nonostante il genuino entusiasmo e le imbarazzanti attenzioni dei colleghi, compagni di fede calcistica – sono tifosi del Manchester United – nonché amici di bevute, preoccupati per le sue condizioni, l’uomo continua ad affondare. In uno degli incontri goffamente organizzati per tirarlo un po’ su, uno di loro, il capo carismatico, lettore accanito di dozzinali manuali di autoaffermazione, suggerisce a Eric di immedesimarsi nel personaggio che più stima, di mettersi nei suoi panni, cominciando a pensare a come questi affronterebbe la situazione.
È così che una sera, dopo l’ennesima giornata storta, Eric si ritrova nella sua stanza a parlare con il poster a figura naturale del suo idolo calcistico: Eric Cantona, esempio di genio e sregolatezza, capace di gesti sportivi sublimi e di altrettanto clamorose cadute di stile. E di fronte a quell’immagine si chiede che cosa avrebbe fatto il “re” con Lily, improvvisamente tornata nella sua vita grazie alla figlia, i ragazzi e tutto il resto. Sarà per l’effetto dello spinello che sta fumando, ma il suo idolo si materializza (il campione interpreta se stesso) e comincia a dispensare consigli all’incredulo postino.
Cantona diventa il suo consigliere. Certo, quelle che dispensa per lo più sono perle di saggezza spicciola, del tipo “se hai paura di tirare un dado non farai mai 6”, e tuttavia efficaci, se è vero che a un certo punto Eric – che pure invece che di essere provocato fino al fastidio da quel dispensatore di sentenze vorrebbe parlare di calcio, ricordando i suoi splendidi gol dei quali questi però sembra non avere memoria – trova il coraggio per incontrare Lily. Tra gag e situazioni che si ingarbugliano Eric dovrà affrontare anche qualche pericolo per cavare via dai guai uno dei ragazzi. Ci riuscirà grazie all’aiuto degli amici, artefici di una mitica “operazione Cantona”.
Proprio questo legame amicale forte, di solidarietà tra colleghi – che nella circostanza non ha come fine una rivendicazione sindacale – è uno dei messaggi forti del film. Non a caso quando Eric chiede a Cantona qual è stato il momento più bello della sua carriera, questi non ricorda un gol, bensì un assist, uno splendido passaggio smarcante per un compagno: perché “devi fidarti dei tuoi compagni di squadra. Sempre”.
Quello nelle sale in questi giorni non è certo il miglior film di Loach, ma certamente è una storia ben girata e ben raccontata, soprattutto credibile, che usa il calcio come metafora della vita, in un accavallarsi di emozioni, dalla gioia all’amarezza, dalla delusione alla speranza. Ma al di là di ciò, l’ironia che leviga le asperità di un’esistenza travagliata e dolente, lo sguardo puntato su una vita segnata e disorientata, l’empatia con la quale il regista segue le vicende del protagonista, al quale come premio regala un finale riconciliatorio, rendono Il mio amico Eric un film denso di umanità, che invita ad avere fiducia nelle persone che si amano e a riflettere sugli errori del passato, suggerendo che c’è sempre una seconda possibilità, un’occasione di riscatto (Da l’Osservatore Romano).
La storia si concentra sulle difficoltà di un uomo, Eric Bishop, postino di Manchester, la cui vita sta andando in pezzi, ha perso la fiducia in se stesso e ha gettato la spugna: la seconda moglie lo ha lasciato con due figli adolescenti avuti da precedenti relazioni e con i quali praticamente non ha un rapporto, è in preda alla depressione e ha appena avuto un incidente d’auto dal quale stenta a riprendersi. Ma ancor di più c’è il passato a tormentare Eric; un passato che non riesce ad affrontare e a superare: trent’anni prima scappò di casa abbandonando la moglie Lily con la figlia appena nata.
Nonostante il genuino entusiasmo e le imbarazzanti attenzioni dei colleghi, compagni di fede calcistica – sono tifosi del Manchester United – nonché amici di bevute, preoccupati per le sue condizioni, l’uomo continua ad affondare. In uno degli incontri goffamente organizzati per tirarlo un po’ su, uno di loro, il capo carismatico, lettore accanito di dozzinali manuali di autoaffermazione, suggerisce a Eric di immedesimarsi nel personaggio che più stima, di mettersi nei suoi panni, cominciando a pensare a come questi affronterebbe la situazione.
È così che una sera, dopo l’ennesima giornata storta, Eric si ritrova nella sua stanza a parlare con il poster a figura naturale del suo idolo calcistico: Eric Cantona, esempio di genio e sregolatezza, capace di gesti sportivi sublimi e di altrettanto clamorose cadute di stile. E di fronte a quell’immagine si chiede che cosa avrebbe fatto il “re” con Lily, improvvisamente tornata nella sua vita grazie alla figlia, i ragazzi e tutto il resto. Sarà per l’effetto dello spinello che sta fumando, ma il suo idolo si materializza (il campione interpreta se stesso) e comincia a dispensare consigli all’incredulo postino.
Cantona diventa il suo consigliere. Certo, quelle che dispensa per lo più sono perle di saggezza spicciola, del tipo “se hai paura di tirare un dado non farai mai 6”, e tuttavia efficaci, se è vero che a un certo punto Eric – che pure invece che di essere provocato fino al fastidio da quel dispensatore di sentenze vorrebbe parlare di calcio, ricordando i suoi splendidi gol dei quali questi però sembra non avere memoria – trova il coraggio per incontrare Lily. Tra gag e situazioni che si ingarbugliano Eric dovrà affrontare anche qualche pericolo per cavare via dai guai uno dei ragazzi. Ci riuscirà grazie all’aiuto degli amici, artefici di una mitica “operazione Cantona”.
Proprio questo legame amicale forte, di solidarietà tra colleghi – che nella circostanza non ha come fine una rivendicazione sindacale – è uno dei messaggi forti del film. Non a caso quando Eric chiede a Cantona qual è stato il momento più bello della sua carriera, questi non ricorda un gol, bensì un assist, uno splendido passaggio smarcante per un compagno: perché “devi fidarti dei tuoi compagni di squadra. Sempre”.
Quello nelle sale in questi giorni non è certo il miglior film di Loach, ma certamente è una storia ben girata e ben raccontata, soprattutto credibile, che usa il calcio come metafora della vita, in un accavallarsi di emozioni, dalla gioia all’amarezza, dalla delusione alla speranza. Ma al di là di ciò, l’ironia che leviga le asperità di un’esistenza travagliata e dolente, lo sguardo puntato su una vita segnata e disorientata, l’empatia con la quale il regista segue le vicende del protagonista, al quale come premio regala un finale riconciliatorio, rendono Il mio amico Eric un film denso di umanità, che invita ad avere fiducia nelle persone che si amano e a riflettere sugli errori del passato, suggerendo che c’è sempre una seconda possibilità, un’occasione di riscatto (Da l’Osservatore Romano).