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Jalalabad: il niet di Medvedev

“Non è altro che un conflitto interno e per ora la Russia non ritiene soddisfatte le condizioni per partecipare ad una sua risoluzione”. Così la Timakova, spokeswoman del Cremlino, liquida la questione kirghiza, che da aprile ha ormai dato avvio a un esodo di massa di uzbechi verso il vicino Uzbekistan, a causa delle sanguinose rivolte che hanno provocato più di 118 morti e almeno 1500 feriti. Del resto, i dati reali sarebbero di gran lunga peggiori rispetto alle stime ufficiali.
Da settimane, a Osh, seconda maggiore città del Kirghizistan meridionale, si vive sotto assedio: anche se gli scontri sono causati da iniziative di entrambi i gruppi etnici, le bande kirghize sono le più spietate nei quotidiani saccheggi di case e negozi, condotti appiccando fuoco a interi quartieri. La città è sommersa da una pesante coltre di fumo in aggiunta alla mancanza di gas, acqua e elettricità. Presto, anche le scorte alimentari termineranno. Tali circostanze hanno fatto proclamare al governo ad interim lo stato di emergenza, portando così all’attribuzione alle forze pubbliche di sicurezza la licenza shoot-to-kill. Il ché non aiuta di certo il processo di pacificazione.
Se il presunto istigatore degli scontri parrebbe essere l’ex presidente in esilio Bakiyev, cacciato da una rivolta popolare in aprile, le radici delle tensioni etniche risalgono al 1920, allorché Stalin divise arbitrariamente i territori fra il Mar Caspio e il Tien Shan, senza tener conto dei reali confini etnici. La massiccia presenza degli uzbechi era fatto di poco conto nell’era sovietica, quando l’autoritarismo soffocava anche i minimi singulti. Ma oggi, dopo il processo di indipendenza, di democratizzazione e di massicce privatizzazioni, riaffiorano gli antichi problemi assieme alle nuove piaghe del terrorismo e della corruzione.
Putin e Medvedev, il cui silenzio non poteva essere interpretato come assenso, messi alle strette da una lettera presidenziale di richiesta di aiuto, hanno confessato di non volersi prendere la briga dell’emergenza umanitaria kirghiza. Della loro “figlioccia”, quella che era la Repubblica più russificata di tutte, essi hanno oggi a cuore solo la base militare russa, peraltro ancora in combutta con quella americana di Manas. Ragion per cui, a fronte dell’invio immediato di decine di paracadutisti per mettere in sicurezza la base, i russi hanno provveduto a fornire blandi aiuti umanitari, forse per salvare la faccia a livello internazionale. Roza Otunbayeva chiedeva forze di mantenimento della pace. Eppure, esauritisi i portati della “rivoluzione del tulipano”, quella che nel 2005 aveva portato all’elezione del presidente filorusso, oggi il governo interinale avrebbe bisogno di parecchia più energia per sedare quei tumulti che sembrano spaventosamente far da preludio a un’imminente guerra civile.

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