Archivio Attualità

“Prima integrazione poi cittadinanza”

Presidente dell’associazione delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai è cittadina italiana dal 1981. Laureata in Lettere e Filosofia a Roma con una tesi sul diritto islamico, è da sempre sulle barricate in difesa dei diritti delle donne musulmane in Italia contro ogni forma di integralismo. Nel 2008 è stata eletta deputata per il Popolo della Libertà.
Onorevole Sbai, come giudica il regolamento per il permesso di soggiorno a punti realizzato dal ministro Sacconi?
Sono convinta che la meritocrazia debba essere caposaldo per istituzioni e cittadini. Far parte integrante di una comunità, di una società, come quella italiana, significa rispetto dei doveri e garanzia di diritti in egual misura. Il principio che sta alla base del permesso di soggiorno a punti nasce dall’esigenza di non considerare automatico il soggiorno prolungato dell’immigrato. E si iscrive in un disegno che mira a tutelare l’immigrazione sana verso il nostro Paese, scoraggiando chi non è disposto ad assumersi precise responsabilità. Si tratta di una proposta che avevo avanzato per prima due anni fa e io stessa oggi avanzo un’obiezione.
Quale?
La mia esperienza di questi anni mi porta ad approfondire un punto che credo il regolamento del governo non risolva adeguatamente: il rischio che intravedo è che la disciplina risulti eccessivamente restrittiva e involontariamente discriminatoria nei confronti degli immigrati di lunga data, ben integrati ma non ancora naturalizzati.
Lei è prima firmataria di una proposta di legge in materia di acquisto della cittadinanza italiana. Secondo la sua collega Isabella Bertolini occorre un sistema premiale perché l’immigrazione non sia subita. Grandi nazioni con un passato coloniale – Francia, Gran Bretagna, Olanda e altri – hanno innovato restrittivamente le loro politiche di immigrazione e cittadinanza. Ad esempio Nicolas Sarkozy, che è pure figlio di immigrati ungheresi, ha istituito il “Ministero per l’immigrazione e l’identità nazionale”. A suo parere, la cittadinanza può essere un mezzo efficace per un’effettiva integrazione?
Chiedere e ottenere la cittadinanza significa condividere i valori fondanti della nazione che ti accoglie, quei valori alla base del patto di convivenza tra i cittadini e  lo Stato. La cittadinanza, quindi, rappresenta il coronamento del percorso di integrazione che deve essere consapevolmente intrapreso come unica via per vivere al meglio nel Paese in cui si è scelto di risiedere, nel nostro caso l’Italia. Gli stranieri sono tenuti a rispettare le regole di convivenza, i diritti costituzionalmente garantiti e i doveri richiesti. L’acquisizione della cittadinanza non può certo costituire il percorso stesso di integrazione o il suo avvio.
E allora cosa c’è di diverso nella sua proposta rispetto alla legislazione attuale?
Il punto centrale che io voglio sia sancito dalla legge è che non via sia alcun diritto a cui non corrisponda un dovere. Ecco perchè la cittadinanza non rappresenta in sé il mezzo efficace per un’effettiva integrazione, quanto piuttosto il passo finale a coronamento di tale percorso. Ci possono essere però eccezioni.
E quali sarebbero?
La cittadinanza potrebbe essere uno strumento giuridico molto utile per limitare, vorrei dire ridurre a zero, i casi di minori vittime di genitori che non intendono rispettare le libertà che l’Occidente assicura anche ai bambini; quei genitori che considerano i figli proprietà e non persone e vogliono assoggettarli alle loro volontà anche quando queste cozzano con gli insegnamenti e i costumi che i figli di immigrati, anche se non sono nati in Italia, hanno acquisito nella loro vita sociale, a scuola, tra i loro amici.
Questi minori sono di fatto italiani a pieno titolo perché istruiti nelle nostre scuole, hanno vissuto nel nostro Paese, sono immersi 24 ore  su 24 nella nostra cultura e quindi sono “italiani” tanto quanto i nostri figli. Tanto che, a volte, non parlano la lingua dei loro Paesi d’origine.
L’Italia, secondo il rapporto 2009 sull’immigrazione Caritas/Migrantes, si colloca tra i primi Paesi dell’Ue per numero di immigrati. Per la prima volta dal 2008, anno in cui gli immigrati sono cresciuti del 13,4% (+458.644), l’Italia ha superato la media europea (6,2%) per presenza di immigrati rispetto ai residenti. I regolari sono 4.330.000, il 7,2% dei residenti e con le ultime regolarizzazioni avranno abbondantemente superato i 4 milioni e mezzo. Un capitolo a parte meritano i minori: restando al rapporto Caritas si tratta di 862.000 persone, di cui mezzo milione nati in Italia. Seicentomila figli di stranieri studiano nelle nostre scuole. Di essi 72 mila provengono da famiglie di stranieri e 222.521 da matrimoni misti. Esiste dunque un’emergenza vera, legata al processo di integrazione. Che ruolo può avere a questo fine la scuola?
Un ruolo importantissimo e delicato. Rappresenta una prima, grande, palestra di convivenza sociale, e lì si apprendono i valori su cui si fonda la nostra società: pace, rispetto, tolleranza, dignità umana, uguaglianza, fratellanza, le pari opportunità tra uomo e donna. Essa ha il ruolo di fornire gli strumenti interpretativi della realtà in cui viviamo, di insegnare e dettare i valori su cui si fonda la nostra società. La scuola è la pietra miliare sulla quale devono poggiare i percorsi di integrazione, perché è il primo luogo di incontro e confronto.
Ecco appunto. Recentemente il marito di una donna che indossava il niqab e che per questo è stata multata a Novara, ha dichiarato in modo stupefacente: ‹‹a questo punto sarò costretto a non farla più uscire››.  Lei si batte, non da oggi, contro l’uso del burqa e del niqab nel nostro Paese ed è a tal proposito prima firmataria di una proposta di legge che ne vieti esplicitamente l’uso in luoghi pubblici o aperti al pubblico, nel rispetto della legge 152/75. Ci può spiegare le ragioni della sua contrarietà all’uso di questi indumenti?
In occasione della discussione della mia proposta di legge, sono state indette indagini conoscitive da cui è emerso che il velo integrale non è, e ripeto non è, un precetto religioso. Teologi di grande peso si sono espressi nella stessa direzione: mi riferisco a quanto pronunciato dal grande imam Tantaoui dell’Università di Al Azhar in Egitto. Proprio ieri l’Alta Corte egiziana ha emesso la sentenza definitiva che impedisce alle studentesse di sostenere gli esami con in dosso il velo integrale. Nonostante, purtroppo, alcuni esponenti politici cerchino di invocare la difesa del diritto a professare il proprio credo religioso, è oramai chiaro a tutti che il burqa e il niqab non c’entrano nulla con la religione e con il Corano.
Davvero? Ma se in Italia, ogni volta che si parla di burq e niqab, si invoca la libertà religiosa!
Sono imposizioni di una tradizione tribale afghana che viene spacciata come precetto islamico e che invece rientrano in una strategia tesa a fare politica – è il caso di dirlo – sulla e con la testa delle donne! Molti Paesi arabi, e mi riferisco particolarmente a quelli del Maghreb che si sono accorti di questo subdolo gioco, stanno mettendo in atto riforme orientate ad abolire il niqab. Non a caso il giornale marocchino “Al Ahdath al Maghrebiya”, ha recentemente pubblicato un eloquente articolo dal titolo “E’ tempo di abolire il niqab”, spiegando come esso rappresenti la bandiera di un islam retrogrado e integralista e che relega la donna in una condizione di inferiorità, di sudditanza e di completa dipendenza. Affermare che portare il velo integrale rappresenti una libera scelta delle donne è miope e non rispondente al vero. Potranno anche esserci casi in cui qualcuna compie consapevolmente questa scelta, ma per la stragrande maggioranza esso rappresenta il simbolo e la catena di un’odiosa schiavitù. E noi non possiamo permettere che violazioni del principio di parità, che ledono e umiliano la dignità delle donne, innanzitutto come esseri umani, trovino spazio in Italia come nel caso di Novara.
Che dovremmo fare quindi noi italiani?
Caduti i pretesti, sfatati i falsi miti, le parole del marito della signora di Novara dimostrano che il burqa è l’estensione della prigione domestica in cui la donna è reclusa. Il velo integrale deve essere bandito dai luoghi pubblici o aperti al pubblico, senza se e senza ma! Le istituzioni devono intervenire immediatamente!
Onorevole Sbai, sta descrivendo una situazione da codice penale!
Infatti si tratta di affermazioni penalmente rilevanti, penso all’articolo ex 610 c.p. (violenza privata) e ex 61 c.p. (abuso di relazioni domestiche). Articoli che – lo sottolineo – dovrebbero comportare l’immediata procedibilità di ufficio da parte della magistratura.
Restando sul versante dell’Islam radicale non possiamo dimenticare omicidi efferati e barbari compiuti sempre più spesso in Italia. Tristemente noto è il caso della pakistana Hina Saleem che, a soli 21 anni, è stata uccisa dalla famiglia per non essersi voluta adeguare agli usi tradizionali della “cultura d’origine”. Stupisce in proposito che il difensore del padre di Hina, durante il processo, abbia – sia pure inutilmente – invocato “attenuanti culturali”, sostenendo che l’esasperazione assoluta in questo omicidio terribile era sorretta da una forte identità religiosa. Sulla base di questo stesso principio un cittadino algerino, Abdelmalek Bayout, processato per aver ucciso a coltellate a Udine, durante una rissa, il cittadino colombiano Felipe Navoa Perez, si è visto scontare la pena di un anno in secondo grado perché ‹‹ritenuto vulnerabile geneticamente››. Secondo lei tale attenuante è ammissibile dal nostro sistema giuridico? Perché procedendo su questa china si potrebbe un domani applicare anche agli autori di attentati terroristici…
Attenuanti culturali? Ma non scherziamo! Abbiamo visto i danni compiuti dalla giurisprudenza europea in quest’ambito. Paesi come la Francia, Il regno Unito, la Danimarca, la Germania e l’Olanda, indicata come modello virtuoso per la costruzione di una società multiculturale, fanno i conti con i nodi venuti al pettine, problemi legati a un multiculturalismo clamorosamente fallito perché orientato a una pericolosa forma di laissez faire.
Un lassismo che secondo alcuni è tolleranza e aiuto all’integrazione…
Il risultato non è un’integrazione ma una marginalizzazione che mina la coesione e la tenuta delle società. L’errore di fondo sta nell’ideologia nichilista che dimentica che la dignità umana, la sacralità della vita, la solidarietà e il rispetto dell’altro sono valori universalmente riconosciuti e al tempo stesso afferma che ogni cultura, anche quella più odiosa e brutale, debba essere compresa e rispettata, nonostante, sul piano etico, le culture non siano ugualmente valide. Tristi testimoni di questa tendenza giustificazionista sono le decine di vittime dovute, anche tra le donne occidentali spose a certi estremisti, ad alcune correnti intransigenti che cercano di diffondere un islam di matrice radicale.
…storie di cui ha dato ampia testimonianza nel suo libro “L’inganno – Vittime del Multiculturalismo”, edito da Cantagalli e già in libreria…
Precisamente. Ho presentato una proposta di legge che intende modificare l’art. 61 del codice penale per istituire l’aggravante culturale per crimini o delitti commessi in nome di una vera o magari presunta tradizione culturale. La prassi giudiziaria del riconoscimento della cosiddetta «attenuante culturale» rischierebbe di dare vita a un perverso meccanismo di legittimazione di atti contrari alle regole che governano lo Stato italiano, in quanto in qualche modo «coperti» dall’origine culturale. Nel caso di Hina, Il GIP non ha accolto la richiesta dell’«attenuante culturale», non codificata nel nostro ordinamento, perché non ne ha riconosciuto i presupposti. Nel caso dei delitti d’onore, essa non può certamente coesistere con il sistema giuridico occidentale, poiché è legata al vissuto etnico, religioso e culturale del reo in relazione al Paese d’origine e a leggi, talvolta applicate in senso estremo per manipolazioni psicologiche, barbare e disumane, di matrice estremista.
Anche da noi vigeva il “delitto d’onore”…
In Italia il delitto d’onore è stato abrogato nel 1981 e rappresenta ormai una pratica in totale contrasto con la Costituzione e con l’ordinamento vigenti nel nostro Paese; non può essere rimessa esclusivamente alla discrezione del magistrato giudicante. Vogliamo forse arrivare ai limiti del giudice di Hannover che qualche tempo fa ha concesso l’attenuante per il crimine di stupro commesso da un uomo di origini sarde ai danni della propria compagna, con la motivazione che le sue origini costituivano motivo di attenuante?! Questo non deve accadere: tali condotte criminose devono essere soggette a pene più pesanti e non devono essere edulcorate, come segno di civiltà e di dignità, di rispetto della persona umana e, ancora di più, della Costituzione e delle leggi del nostro Paese, nonché in attuazione del principio del giusto processo.
Abbiamo finora parlato di immigrazione, integrazione e cittadinanza, considerando quest’ultima come l’eventuale compimento di un percorso di pieno inserimento nella società, negli usi, nei costumi, nella cultura italiana, il tutto nel rispetto della Costituzione della Repubblica. In una parola del sentirsi italiani. È tuttavia necessario prendere in considerazione l’ipotesi di revoca della cittadinanza?
La concessione della cittadinanza italiana a cittadini stranieri deve comportare il rispetto sia della Costituzione sia dei principi fondamentali del nostro ordinamento e, quindi, delle regole della convivenza civile e del rispetto della personalità dello Stato. Spesso, però, si verificano casi limite in cui è sacrosanto dover attuare la revoca di una cittadinanza acquisita: dichiarazioni mendaci, atti pubblici falsi, di crimini legati all’associazione sovversiva a finalità di terrorismo, anche internazionale, o atti che fomentano l’eversione dell’ordine democratico, l’arruolamento o l’addestramento con finalità di terrorismo, anche in relazione a crimini commessi contro la personalità di uno Stato, l’Italia, di cui si è scelto di acquisire la cittadinanza. Se, circa il terrorismo, la motivazione può apparire chiara, per quanto riguarda le dichiarazioni false il problema è più profondo: si sono verificati diversi casi in cui i cittadini stranieri hanno omesso, in caso di richiesta della cittadinanza italiana, di dichiarare precedenti matrimoni contratti nel Paese di origine ovvero in altri Paesi. Ciò spesso ha condotto a clamorosi casi di bigamia a seguito del matrimonio tra questi stranieri e le cittadine italiane.
Bigamia? Ma in Italia la bigamia è vietata per legge…
È proibita dall’art. 86 del codice civile. Ad Acmid Donna (l’associazione delle donne marocchine in Italia, ndr) spesso raccogliamo storie di questo tipo: donne che di punto in bianco si ritrovano sullo stato di famiglia la prima moglie del marito e i relativi figli. O, ancora, casi di sottrazione internazionale di minore, non appena l’uomo abbia acquisito la cittadinanza. La mia proposta di legge intende perciò assicurare maggiore rispetto dei diritti fondamentali nei confronti dei componenti di nuclei familiari di origine extracomunitaria, abolendo le discriminazioni per cause etniche, ideologiche o religiose. E’ necessaria una disciplina con alla base il rispetto del patto etico tra il cittadino e lo Stato e tra l’uomo e la donna e capace di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, ivi compresa la libertà di contrarre matrimonio.
Per la sua esperienza di presidente dell’associazione delle donne marocchine in Italia, esistono nel nostro Paese casi di violazione della legislazione sul ricongiungimento familiare?
Non parlerei di violazione, ma di abuso. Casi come quello di cui ho parlato poco sopra sono all’ordine del giorno e contro di essi mi batto perché i ricongiungimenti familiari non diventino cavallo di Troia per fare entrare in Italia chiunque, per poi ritrovarsi senza alcun diritto in famiglie bigame o poligamiche; affinché i figli nati dai matrimoni misti non siano sfruttati come veicolo utilizzato agli stessi fini. Si tratta di pratiche altamente lesive dei diritti dell’uomo e della loro dignità nonché del valore della famiglia. Ciò su cui si deve lavorare è la seconda generazione: bisogna salvaguardare questi ragazzi, facendoli sentire pienamente italiani per non creare malessere ed evitare pericolose crisi identitarie che all’estero hanno fatto gravi danni. Altrimenti si spalancano le porte all’estremismo (da ilPredellino).

Riguardo l'autore

vocealta