Le note polemiche su Annozero e la successiva rivolta promossa contro il canone Rai, invitano tutti a una serena valutazione del rapporto tra politica e televisione.
Negli anni si sono sviluppate diverse teorie.
In linea di massima se ne ravvisano due di segno completamente opposto: la prima che vuole una politica in grado di monopolizzare i palinsesti delle emittenti pubbliche e private, modificando così la natura stessa del tubo catodico. La seconda, invece, afferma l’esatto contrario: è la televisione, con i suoi linguaggi, i suoi tempi, il suo modo di essere e la sua supremazia mediatica, ad aver condizionato negli ultimi decenni la politica italiana e non solo.
Più affidabile, a questo punto, è una terza teoria: tv e potere si influenzano reciprocamente. E nessuno dei due, a quanto pare, può fare a meno dell’altro.
Il politico, è ormai assodato, non esiste senza il piccolo schermo. Anche se oggi c’è la Rete, i blog, Facebook e surrogati vari, se non si è sul media principale è difficile ricevere la legittimazione definitiva. Quindi bisogna adattarsi ai suoi codici, ai suoi ritmi e fare sempre molta attenzione: un messaggio distorto può avere effetti devastanti. Il pubblico vero non è presente in quel momento e in quel luogo, il suo giudizio, la sua reazione non può aiutare quindi il personaggio di turno a modificare la sua performance e a correggere, se serve, il tiro.
Per tale motivo bisogna arrangiarsi e ridurre al minimo gli errori, essere sintetici e soprattutto diretti. “Arrivare al cuore della gente”, si diceva una volta. Oggi questa è un’impresa sempre più ardua, ma già farsi capire dalla maggioranza degli spettatori rappresenta un successone.
Non vi è dubbio, tuttavia, che la stessa politica, esercitando -come sempre ha fatto e continuerà a fare- il suo potere, condiziona l’impresa televisiva, provando a sfruttarne fino all’ultimo i vantaggi.
Si tratta quindi di due forze, sempre in bilico tra un’accesa dialettica e tregue fatte di compromessi o reciproco rispetto. Da questa sorta di dualismo si spera vengano fuori contenuti corretti ed efficaci.
Quale può essere oggi la soluzione?
Secondo il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, è ”giunto davvero il momento di dire basta ad una televisione degradante dei costumi civili e politici del Paese e di aprire una pagina nuova in cui la televisione può acquistare una funzione positiva rispetto alla necessità di un elevamento dello spirito pubblico e della coscienza democratica di una nazione”.
La cosiddetta tv educativa o pedagogica degli anni ‘50 e ‘60 è ormai un lontanissimo ricordo. Ora le leggi del marketing obbligano gli addetti ai lavori a costruire prodotti in grado di attrarre un pubblico esigente e sempre più eterogeneo e sfuggente. La spettacolarizzazione e drammatizzazione del confronto/scontro politico è quindi un genere già ben collaudato nel panorama mediatico italiano.
Ma alzare il livello dei contenuti, come auspica il ministro, non è comunque un’utopia, occorre però uno sforzo da parte di tutti. A partire dalla televisione, che deve innanzitutto evitare di interpretare il ruolo di perenne vittima.
Proprio quello che in realtà non è.
Negli anni si sono sviluppate diverse teorie.
In linea di massima se ne ravvisano due di segno completamente opposto: la prima che vuole una politica in grado di monopolizzare i palinsesti delle emittenti pubbliche e private, modificando così la natura stessa del tubo catodico. La seconda, invece, afferma l’esatto contrario: è la televisione, con i suoi linguaggi, i suoi tempi, il suo modo di essere e la sua supremazia mediatica, ad aver condizionato negli ultimi decenni la politica italiana e non solo.
Più affidabile, a questo punto, è una terza teoria: tv e potere si influenzano reciprocamente. E nessuno dei due, a quanto pare, può fare a meno dell’altro.
Il politico, è ormai assodato, non esiste senza il piccolo schermo. Anche se oggi c’è la Rete, i blog, Facebook e surrogati vari, se non si è sul media principale è difficile ricevere la legittimazione definitiva. Quindi bisogna adattarsi ai suoi codici, ai suoi ritmi e fare sempre molta attenzione: un messaggio distorto può avere effetti devastanti. Il pubblico vero non è presente in quel momento e in quel luogo, il suo giudizio, la sua reazione non può aiutare quindi il personaggio di turno a modificare la sua performance e a correggere, se serve, il tiro.
Per tale motivo bisogna arrangiarsi e ridurre al minimo gli errori, essere sintetici e soprattutto diretti. “Arrivare al cuore della gente”, si diceva una volta. Oggi questa è un’impresa sempre più ardua, ma già farsi capire dalla maggioranza degli spettatori rappresenta un successone.
Non vi è dubbio, tuttavia, che la stessa politica, esercitando -come sempre ha fatto e continuerà a fare- il suo potere, condiziona l’impresa televisiva, provando a sfruttarne fino all’ultimo i vantaggi.
Si tratta quindi di due forze, sempre in bilico tra un’accesa dialettica e tregue fatte di compromessi o reciproco rispetto. Da questa sorta di dualismo si spera vengano fuori contenuti corretti ed efficaci.
Quale può essere oggi la soluzione?
Secondo il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, è ”giunto davvero il momento di dire basta ad una televisione degradante dei costumi civili e politici del Paese e di aprire una pagina nuova in cui la televisione può acquistare una funzione positiva rispetto alla necessità di un elevamento dello spirito pubblico e della coscienza democratica di una nazione”.
La cosiddetta tv educativa o pedagogica degli anni ‘50 e ‘60 è ormai un lontanissimo ricordo. Ora le leggi del marketing obbligano gli addetti ai lavori a costruire prodotti in grado di attrarre un pubblico esigente e sempre più eterogeneo e sfuggente. La spettacolarizzazione e drammatizzazione del confronto/scontro politico è quindi un genere già ben collaudato nel panorama mediatico italiano.
Ma alzare il livello dei contenuti, come auspica il ministro, non è comunque un’utopia, occorre però uno sforzo da parte di tutti. A partire dalla televisione, che deve innanzitutto evitare di interpretare il ruolo di perenne vittima.
Proprio quello che in realtà non è.