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La riforma che fa bene al PD

Non serve girarci troppo intorno. Il Partito Democratico si ritrova oggi in un vicolo cieco. Le elezioni che dovevano regalare un po’ di ossigeno a Bersani e rilanciare l’intero progetto hanno solo peggiorato la situazione. Causa un risultato deludente, accompagnato da veleni e dissidi interni.
Il PD resta ancora un oggetto misterioso. E’ in realtà questo il vero problema. Una semplice sigla che raccoglie le dirigenze di due partiti e poco più. Manca l’identità, il rapporto diretto con la base. E manca soprattutto una vera visione. Un’idea credibile e al tempo stesso stimolante.
Quando con Veltroni è venuto alla luce, a tutti è sembrato abbastanza chiaro l’obiettivo: creare una forza nuova, adeguarla alla società del terzo millennio e tagliare i conti con un fallimentare passato. Un partito costruito intorno al leader e i suoi elettori, leggero come quello americano, ma capace comunque di raccogliere e riadattare antiche culture politiche. E’ stata quindi fatta una scelta: sradicare le radici comuniste e neocentriste e provare a creare una creatura diversa. Accantonando anche la terza via: quella di un socialismo progressista e riformista, in stile tipicamente europeo. Il PD doveva in pratica stravolgere le regole, spiazzare gli avversari e ripartire con un modello estremamente innovativo. L’ispirazione era palesemente maggioritaria, fondata su un leader autonomo e forte. In grado di essere almeno interlocutore alla pari con i vari apparati. Perché era ancora troppo vivo il ricordo di un Prodi condannato a non decidere e a mediare in eterno con le sue chilometriche maggioranze.
Con le dimissioni dell’ex sindaco di Roma, la parentesi di Franceschini e il ritorno alla tradizione di Pierluigi Bersani, questo lento ma ambizioso processo si è arrestato. E la trasformazione è rimasta incompiuta. Per tale motivo adesso ci si ritrova con un partito idealmente nuovo soffocato da vecchi modi fare. E’ come far guidare una Ferrari di oggi a un pilota degli anni ’50.
Però, anche stavolta, uno spiraglio c’è. Una riforma, a carattere presidenziale, può rappresentare la salvezza del Partito Democratico. Perché solo liberando il leader, garantendogli potere, forza e autorità, il partito può cominciare a camminare nel verso giusto. E secondo i principi per cui è stato inizialmente concepito.
L’attuale segretario è quindi dinanzi ad un ennesimo bivio: rifiutare ogni tipo di accordo con la maggioranza per restare accanto a Di Pietro e programmare quindi una nuova grande alleanza in vista delle prossime politiche.
Oppure cambiare definitivamente rotta e pensare insieme al  centrodestra ad un presidenzialismo moderno ed efficace. Che darebbe sicuramente nuove prospettive anche alla più importante forza d’opposizione.
Ma c’è da superare comunque un ostacolo enorme: lo storico pregiudizio nei confronti del premier e del berlusconismo. Per questo la missione, più che difficile, appare francamente quasi impossibile.

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