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La ribalta della palla ovale

Una settimana dopo la sbornia mediatica di San Siro, l’Italia del  rugby è chiamata a una duplice conferma. La prima, far registrare il tutto esaurito anche allo Stadio Friuli di Udine, dove domani alle 15.00 gli Azzurri allenati da Nick Mallett affrontano i Campioni del Mondo del Sudafrica; la seconda, ribadire sul campo quanto di buono
fatto vedere contro gli All Blacks.
L’Italia, il movimento rugbistico del nostro Paese, è in crescita e gli ultimi dieci anni hanno visto un formidabile incremento di pubblico e praticanti, ora prossimi ai centomila a fronte dei venticinquemila scarsi di inizio millennio.
Sempre più fenomeno mediatico e pubblicitario, l’ovale attira le simpatie e l’interesse di un numero sempre crescente di aziende, andate ad arricchire sensibilmente il bilancio della FIR che, oggi, è per bilancio la seconda federazione sportiva nazionale dietro alla FIGC in termini di bilancio.
Sul campo da gioco, la situazione è differente e qui sta l’anomalia del rugby italiano: in un Paese dove secondo posto non fa mai rima con successo o popolarità, la Nazionale Italiana Rugby rappresenta una formidabile anomalia. Perché piace anche se non vince.E quando intendiamo “non vince”, intendiamo proprio che non vince mai.
O quasi.
Ora, è vero che la squadra guidata da Sergio Parisse – bello, statuario, ricco, promesso sposo dell’ex Miss Europa Alexandra Rosenfeld – gioca sistematicamente contro squadre che la precedono nella classifica mondiale. Ma è anche vero che, per risalire all’ultima vittoria dell’Italia è necessario risalire al giugno del 2008, successo – prestigioso, sì, ma quanto lontano – contro l’Argentina, medaglia di bronzo agli ultimi mondiali.
E, allora, ecco sorgere spontanea la domanda. Perché il rugby piace in Italia? Piace, sostanzialmente, perché da qualche anno a questa parte – e grazie a un’opera di comunicazione che varrebbe la pena approfondire – la Nazionale (e, si badi, solo questa, giacchè il campionato riscuote minimo interesse e successo) ha saputo proporsi quale valida alternativa al monopolio calcistico.
In un Paese che, al contrario di quanto avvenuto in Inghilterra, ha arginato ma non risolto il problema dell’hooliganismo, gli incontri della Nazionale di rugby rappresentano per lo sportivo la concreta possibilità di trascorrere un pomeriggio allo stadio con la propria famiglia lontano dagli eccessi a cui ci ha abituato il calcio
dell’ultimo ventennio.
Tifoserie mischiate, allegria generale, il desiderio di assistere a uno spettacolo sportivo di altissimo livello eppure lontano dai climi infuocati che caratterizzano da troppo tempo le nostre domeniche.
Detto questo, è pacifico che il rugby non potrà mai sostituire il calcio nel nostro Paese – per profondità di penetrazione, per numero di praticanti e appassionati – ma, sicuramente, se saprà imparare e ripetere i successi di marketing e comunicazione visti a Milano la scorsa settimana, potrà conservare la propria posizione di privilegio
nel panorama sportivo di casa nostra.
La recente ammissione del rugby ai Giochi Olimpici a partire da Rio de Janeiro 2016, seppure nella formula a sette giocatori, potrà fare il resto.

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