Archivio di Spettacolo

La prima cosa bella

Come il protagonista del suo ultimo film, il professore di lettere Bruno Michelucci (un superbo Valerio Mastandrea), anche Paolo Virzì è scappato dalla natia Livorno. E come Bruno, anche Virzì ha finito per «doverci» tornare. Nella finzione cinematografica, Bruno lo fa — decisamente controvoglia — per accorrere al capezzale della madre in fin di vita (Stefania Sandrelli); nella realtà si può immaginare che Virzì, dopo tanti anni di «esilio» romano, abbia finito per sentirsi in dovere di fare i conti con una città che è molto più di una semplice referenza anagrafica e che rappresenta quelle radici affettive, culturali e comportamentali da cui non sempre è facile staccarsi. Ma nel film questi due piani si intrecciano strettissimamente e la storia di una madre che ha vissuto intensamente la propria esistenza e che forse per questo «ha rovinato la vita» ai figli diventa inevitabilmente il ritratto di una città che rischia di «divorare» i suoi figli, che li spinge alla fuga e che però non si può fare a meno di amare e portare nel cuore.
Ecco, il fascino e la bellezza di La prima cosa bella è proprio in questa doppia lettura, nella «confusione» tra due livelli, quello puramente narrativo e quello più sottilmente autobiografico, capace da una parte di rendere più autentica la storia di Bruno, di sua sorella Valeria (Claudia Pandolfi) e della loro madre Anna (la Sandrelli oggi, Micaela Ramazzotti negli anni Settanta), e dall’altra di rendere più intriganti i conti esistenziali che Virzì ha deciso di fare con le proprie radici.
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», scriveva Pavese e questa frase può dire tante cose del rapporto di odio-amore che i livornesi hanno con la propria terra. Anche, in fondo, del bisogno di tornarci dopo esserne scappato, proprio come fa Bruno e come fa Virzì, che non a caso ha messo questa citazione in exergo del documentario — girato in parallelo con il film—sul cantautore livornese Bobo Rondelli (geniale, maledetto e sommamente egoista e autodistruttivo, come pare siano i veri livornesi), omaggiato nel film con il ruolo del timido proprietario del negozio di articoli di mare. Come tutti innamorato di Anna (e di Livorno).
Il film è costruito da un continuo alternarsi di presente e passato, di ricordi e di sorprese che costringe i due figli — lui fuggito a Milano, lei rimasta a Livorno — a fare i conti non tanto con l’inesauribile vitalità della madre Anna, malata terminale che sembra a tratti «immortale» talmente resiste agli assalti del male, quanto con il legame affettivo che li lega a lei (e alla loro città). Non a caso le peripezie che fratello e sorella devono sopportare (interpretati da bambini da Giacomo Bibbiani e Aurora Frasca e poi da ragazzi da Francesco Rapalino e Giulia Burgalassi) hanno l’esuberanza — e l’ingenuità—della madre come causa immediata, ma la piccineria e l’egoismo dell’ambiente cittadino come vera e profonda spiegazione.
Ecco allora le scenette dell’elezione della mamma più bella ai popolari Bagni Pancaldi nel 1971, la gelosia del marito che scaccia la moglie da casa, la fugace carriera cinematografica (fa la comparsa a Castiglioncello sul set di La moglie del prete), l’incontro con il generoso avvocato Cenerini e l’amore silenzioso del vicino Nesi (Marco Messeri). Tutto questo lo spettatore lo scopre attraverso i ricordi di Bruno, costretto a fare i conti con una mamma non certo rassegnata alla propria malattia, vitale e travolgente come sempre, capace di fuggire dall’ospedale per commuoversi ancora una volta al cinema e sempre pronta a cantare una canzoncina consolatoria con i figli, come quella che dà il titolo al film. Anche nei momenti meno indicati.
Sceneggiatore insieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo, Virzì costruisce il suo film come la più tradizionale delle commedie all’italiana (adattate ai nostri giorni), alternando lacrime e sorrisi, ironia e malinconia, graffi e carezze, sfruttando la forza di un cast come sempre ottimo. Ma vale anche la pena di riflettere sul fatto che quest’anno, praticamente in contemporanea, tre registi diversissimi tra loro ma vicini anagraficamente come Tornatore, Rubini e Virzì abbiano sentito il bisogno di fare i conti con il proprio passato, tornando a confrontarsi con le radici che avevano cercato di «dimenticare». Ognuno in modi diversi — Baarìa in maniera più «politica», L’uomo in nero con un approccio più «psicologico», La prima cosa bella nelle forme più «tradizionali» della commedia —ma tutti e tre con la consapevolezza che non si può cancellare la propria Storia. Anche se è una storia che rischia di rovinarci la vita (da il Corriere della Sera).

Riguardo l'autore

vocealta