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LA NOSTRA IDENTITÀ

Pubblichiamo il testo integrale della relazione che il coordinatore nazionale del Popolo della Libertà, Sandro Bondi, ha tenuto il 10 settembre in apertura dei lavori della Scuola di Formazione di Gubbio, quest’anno dedicata al ricordo di don Gianni Baget Bozzo.

Tutti avvertiamo la mancanza di don Gianni, la sua capacità di pensieri illuminanti. Non potevamo non ricordarlo oggi e dedicare a lui questa ottava edizione della scuola di Gubbio, la prima del Popolo della Libertà. La concezione della politica di don Gianni era pensata e vissuta – posso dirlo per averlo sperimentato da vicino – drammaticamente, proprio perché egli era consapevole del ruolo delle persone e della libertà nella storia. Nel suo messaggio al nostro Congresso, don Gianni scriveva: «Alla base delle mie condizioni di salute vi è anche una lunga angoscia e ansia per le sorti del nostro movimento dopo la vittoria del 2001. Il movimento creato da Berlusconi – proseguiva don Gianni – è sempre stato segnato da una radicale improbabilità secondo le ragioni della politica. Era come il calabrone che, secondo le leggi della statica, non dovrebbe volare. Eppure vola… La ragione può comprendere la logica del potere, ma solo la fede fonda l’improbabile della libertà. Berlusconi ha usato la parola “fede nella libertà” e il Novecento, che è stato il secolo di bronzo dei poteri totalitari, è terminato con la vittoria della libertà. Credere nella libertà significa creare una possibilità, come credere nella fede cristiana crea la possibilità del cristianesimo. Vi è un nesso indissolubile tra l’evento cristiano e l’evento della libertà, perché ambedue si fondano sul concetto che l’uomo sia una persona e che la persona possa creare». Don Gianni terminava così il suo messaggio: «La possibilità che abbiamo creato è l’unica realtà in grado di dare all’Italia un governo. Il brutto anatroccolo – si riferiva al partito, a Forza Italia – è diventato un’aquila reale. Non è un caso, credo, che chi come noi ha sfidato l’impossibile sia chiamato oggi a governare una società che non ha tabelle di marcia. Il governo Berlusconi è chiamato a creare una possibilità per la tempesta che oggi attraversiamo. A questo siamo chiamati tutti noi nella misura delle diverse responsabilità, sotto la guida di un leader che ha realizzato quello che prima di lui non poteva esistere».

Prenderò brevemente in esame questi tre punti: la questione del governo, della crisi e del partito. Ma prima ritengo necessario porre una domanda essenziale: qual è la nostra idea dell’Italia? Qual è la nostra concezione della storia d’Italia? Sì, perché il compito in cui siamo impegnati, quello di costruire una nuova Italia, significa anche ripensare alla sua unità e alla sua storia. Non a caso il 150° anniversario dell’unità d’Italia ha acquistato giustamente un grande rilievo, anche nel dibattito politico di questi giorni. C’è un principio attorno al quale può nascere una nuova Italia? Una pietra d’angolo che ci consenta di realizzare il cambiamento di cui l’Italia ha bisogno, ispirandoci al meglio della nostra storia, con una visione unitaria e non disgregante? Sì, c’è questo principio. E bisogna dare atto a Umberto Bossi e al movimento da lui fondato di averlo riscoperto e posto al centro del dibattito politico di questi anni: questo principio ispiratore è il federalismo, è la comunità del territorio. Voglio affermare subito con chiarezza, tuttavia, che per noi il federalismo è un principio di unità, di valorizzazione delle diversità, certamente non un principio o uno strumento di disunione. Il federalismo riporta il problema italiano pressoché alle sue origini, al momento della creazione dello Stato unitario, ci riporta a Vincenzo Gioberti, a Carlo Cattaneo, ci riporta cioè a quella strada interrotta che avrebbe potuto creare un’unità nazionale più rispettosa delle diversità regionali e municipali che costituiscono la ricchezza e l’originalità della storia della nostra nazione, prima ancora della creazione dello Stato unitario.

Federalista era anche Adriano Olivetti, al quale io stesso ho dedicato recentemente un saggio, per riprendere le tesi di un pensatore che aveva fatto del federalismo e del valore della comunità il punto centrale della sua azione politica e imprenditoriale. Nel mio libro dedicato a Olivetti sono partito da una tesi enunciata da Tremonti: «Il nostro modello sociale – quello del Popolo della Libertà – è nuovo e alternativo (all’ideologia del mercatismo) proprio perché assume una forte e nuova caratterizzazione, insieme personale e comunitaria». Se nella tempesta che abbiamo incontrato e che stiamo ancora attraversando, il governo è stato capace di ottenere risultati importanti, non è forse anche grazie a questa visione della società che abbiamo elaborato? Se il governo Berlusconi ha saputo affrontare la crisi dell’economia riuscendo addirittura ad accrescere i propri consensi, non lo si deve forse al fatto che possediamo una cultura politica capace di leggere la realtà e di rappresentare dei solidi punti di riferimento della nostra azione politica e di governo? Fra gli intellettuali vi sono coloro che parlano ormai di una vera e propria egemonia culturale del centrodestra, mentre fino a poco tempo fa gli stessi intellettuali ci paragonavano culturalmente e politicamente a dei barbari. Io credo che bisogna sempre rifuggire dagli eccessi. La verità, probabilmente, anche in questo caso sta nel mezzo: una forza politica può diventare decisiva, egemone, quando si mette in sintonia con il mutamento degli scenari del mondo, quando ne intuisce la portata, quando legge e vede cose che altri non vedono. Questa è la cultura politica in vivo. Questa è la cultura politica che noi obiettivamente la possediamo e che ispira l’azione di governo. La crisi della sinistra italiana sta viceversa tutta nell’incapacità di leggere la realtà, di intenderne i mutamenti. La sinistra italiana oggi vive un drammatico distacco, un vero e proprio divorzio dalla realtà, risultato di una crisi culturale della quale parleremo più avanti.

Abbiamo affrontato la tempesta della crisi economica con una concezione della società italiana, con la consapevolezza dei suoi punti di debolezza, certo, ma anche dei suoi punti di forza. Se Tremonti e Berlusconi hanno saputo manovrare con successo il timone del governo nel pieno di una crisi economica che ha messo in ginocchio paesi ed economie considerate più forti della nostra, lo hanno potuto fare perché hanno mostrato di avere un’idea più vera dell’Italia, più fondata dell’Italia. Sapevano e sanno cioè che l’Italia ha sì bisogno di profonde riforme per superare i suoi storici ritardi, per mettersi al passo con lo sviluppo, ma questa coscienza si accompagna sempre alla fiducia nel popolo italiano, alla fiducia nei confronti di una società che non è il luogo della virtù ma neppure il luogo del menefreghismo o del qualunquismo, come pensano Repubblica e gran parte della sinistra. Per costoro dovremmo imparare da quelli che sarebbero sempre migliori di noi, dall’Europa o dagli altri paesi, mentre questa crisi ha dimostrato semmai proprio il contrario, e cioè che il nostro sistema sociale, i valori della nostra tradizione, quel tessuto multiforme del territorio di cui da anni parla De Rita, hanno dato vita ad una struttura più robusta e più sana di quanto non si creda. La crisi economica che stiamo vivendo, infatti, non è la crisi del capitalismo o del mercato, ma è una crisi scaturita dall’assenza di regole, anzi dalla violazione delle regole, dalla mancanza di valori morali condivisi e di un fine sociale e umano dello sviluppo economico.

In uno dei suoi primi discorsi Barack Obama ha detto: «Non è in discussione se il mercato sia una forza positiva o negativa», poiché «la sua capacità di generare ricchezza e di espandere la libertà non ha eguali». Sennonché «la crisi presente ci ha ricordato che, senza un occhio vigile, il mercato può andare fuori controllo», e «non è pensabile che una nazione possa a lungo prosperare quando ad essere favorito è soltanto chi è agiato». Questo spirito, questo pensiero credo sia anche il nostro. Questo pensiero non è un’ideologia, è quanto di meglio hanno espresso le culture democratiche del nostro tempo, cioè la convinzione che anche l’economia deve avere una finalità, di carattere sociale, umano, spirituale, e che nessuno può essere lasciato solo, soprattutto quando è nel bisogno, quando soffre. In questo quadro, penso che la riforma della sanità americana di Obama rappresenti l’esempio di una politica che è mossa da valori morali e spirituali, una politica che mette al centro la persona, una politica che fa ancora sperare nel futuro. Anche il pensiero di Benedetto XVI ci può aiutare ad affrontare questa crisi come una opportunità di cambiamento.

Adriano Olivetti fu profetico quando, dopo la crisi del ‘29, scrisse: «Chi può realizzare il nuovo mondo che nasce? Non lo Stato né gli individui come tali. Occorre trovare un fondamento nuovo in grado di ricomporre la coesione sociale che è una coesione da intendere anche in termini spirituali: la comunità concreta. L’idea è di creare interessi morali e materiali condivisi tra gli uomini che vivono la loro vita sociale ed economica in un conveniente spazio geografico determinato dalla natura o dalla storia». Come vedete, questa visione della società si fonda proprio su una concezione personalista e comunitaria frutto dell’incontro fra la tradizione del cristianesimo e quella del socialismo umanitario e liberale, oltre che dell’apporto di tutte quelle tradizioni – come quella della destra sociale italiana – che hanno valorizzato la dimensione personale e sociale dell’uomo.

Se è vero, perciò, che non siamo delle forze eterogenee tenute insieme solo dal carisma di Berlusconi e non siamo neppure l’espressione di disvalori, come crede il partito di Repubblica, vorrei cercare di fare un ulteriore passo avanti: quali caratteristiche ha questa nostra identità, questa nostra cultura politica, questa nostra visione della società e del futuro dell’Italia? Io questa caratteristica la sintetizzerei in questo modo: è una identità che rifugge dalle ideologie, ma continua a coltivare la speranza di un cambiamento, cioè di una umanizzazione della società; è anche una identità che non abbraccia né l’ideologia del relativismo né quella – altrettanto preoccupante – dell’accettazione della realtà così com’è, ma nello stesso tempo non condanna la realtà moderna e l’uomo moderno sulla base di principi assoluti. Questa identità ha un nucleo di valori forti e unitari (non di tradizioni che semplicemente si giustappongono), di ideali che tendono a calarsi nella realtà e a trasformarla, ma nello stesso tempo questa identità è compassionevole, caritatevole nei confronti dell’uomo e delle sue contraddizioni, è aperta al dialogo e alla comprensione delle ragioni degli altri.

Da questo punto di vista, a me pare che il mondo cattolico non rappresenti un fronte monolitico, un corpo dottrinario incapace di comprendere la modernità, come sostengono alcuni, ma una realtà ricca e molteplice, di diverse tendenze dottrinali e di sensibilità, che interpella oggi la coscienza dei laici e non soltanto dei credenti. Come non essere d’accordo con Papa Benedetto XVI, quando scrive, nella sua ultima enciclica, che «un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. E’ esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale». Nello stesso tempo, come credente, avverto come profondamente vero e umano il pensiero espresso da un altro uomo del mondo cattolico, il cardinale Carlo Maria Martini, quando ha detto: «Non possiamo sempre gridare forte la verità. Essa presuppone amore e sensibilità. Gli esseri umani sono più che mai in cerca di sollievo e aiuto nel dialogo». Per questo dicevo che una delle caratteristiche della nostra identità ci può venire suggerita in qualche modo dallo stesso mondo cattolico, che rivendica sì un pensiero di verità, ma che si accompagna sempre alla comprensione per l’uomo, per le sue sofferenze, per le sue domande. Questa identità complessa e aperta ci spinge sul piano politico ad un’azione che punti a superare le divisioni, le fratture, gli steccati, nella sfera della società, dell’economia, della politica e della cultura, per creare le condizioni di un’Italia più coesa, più unita, più solidale.

Ciò non significa ignorare la realtà o condividere una cultura che si illude di risolvere i problemi reali servendosi di parole magiche, come quando la sinistra di fronte ai problemi che pone un’immigrazione incontrollata si rifugia nella predicazione di una società multirazziale e multiculturale e multietnica, come se questa predicazione risolvesse d’incanto i problemi. Io sono convinto che soltanto il nostro partito, soltanto il Popolo della Libertà, può realizzare con successo un progetto di ricomposizione, di superamento delle fratture e delle divisioni presenti nella società italiana secondo una visione unitaria. Ne sono convinto sia perché la nostra azione politica e di governo è ispirata da quei principi e da quei valori che ho ricordato, sia perché siamo i rappresentanti di una politica moderata, che si distingue per la ricerca di un punto di equilibrio: qui sta la saggezza della politica. Una forza politica come la nostra non cade nell’errore di mettere in contrapposizione due aspetti di uno stesso problema (ad esempio la questione della sicurezza, del necessario controllo dell’immigrazione, con quella dell’integrazione), ma si pone il problema di individuare un punto di equilibrio tra queste esigenze altrettanto importanti.

La ricerca di questo punto di equilibrio ci deve impegnare in un lavoro comune. Partendo da una considerazione sulla quale tutti possiamo concordare: per troppi anni in Italia, soprattutto a causa di un abito mentale diffuso dalla sinistra, è stata assente una politica seria e rigorosa di controllo dell’immigrazione clandestina. Questo pericoloso lassismo nell’affrontare con razionalità uno dei fenomeni più complessi e duraturi del nostro tempo, è all’origine dell’insicurezza che la maggioranza degli italiani, soprattutto di quelli socialmente più deboli, avverte sempre più acutamente. Il bisogno di sicurezza non è alimentato da una parte politica, come cerca di far credere la sinistra, ma è un fenomeno sociale reale, al quale un governo deve fornire risposte convincenti. Per questo, ritengo, anche come cattolico, che le misure sulla sicurezza varate dal nostro governo siano molto positive, perché offrono risposte concrete ad un bisogno di sicurezza che qualsiasi comunità ha il diritto di vedere garantito. Quelle forze politiche che ignorano questa richiesta di sicurezza che sale dal paese sono irresponsabili e colpevoli di alimentare di fatto un sentimento di avversione indiscriminata del popolo nei confronti degli immigrati. Questo pericolo esiste anche in un paese come l’Italia che è, per cultura e per inclinazione, il meno razzista del mondo. Tutto questo vuol forse dire che dobbiamo disinteressarci di una politica dell’integrazione di quegli immigrati che lavorano regolarmente in Italia e che contribuiscono al nostro progresso economico? Vuol dire forse che non ci dobbiamo porre il problema dei diritti per coloro che si sentono e vogliono essere italiani? Certamente no. Perché anche questa preoccupazione scaturisce dai nostri valori, dalla nostra visione del futuro dell’Italia. Ma bisogna farlo con equilibrio, con misura, senza contraddire la nostra visione della società e senza venir meno ai nostri programmi di governo. Il ministro Frattini, ad esempio, ha cercato di dare un contributo in questa direzione, come sempre onesto, trasparente e costruttivo.

Anche la questione del Mezzogiorno chiama in causa direttamente il nostro profilo e la nostra responsabilità di forza politica nazionale. La spaccatura fra le due Italie non è un prodotto della Lega – come ha osservato un lucido commentatore – ma è una costante della nostra storia nazionale, un nodo di sempre che ora sta venendo al pettine. In questi anni, il divario fra Nord e Sud si è anzi accentuato. Sono d’accordo con il professor Galasso che un «partito del Sud» è la peggiore risposta che si può dare alla questione meridionale. Ci troviamo di fronte al fallimento del tradizionale meridionalismo, soprattutto a causa dell’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali, in particolare dopo l’esito fallimentare e disastroso dell’esperienza di governo della sinistra nelle regioni meridionali. Se questa è la realtà, le nostre responsabilità sono ancora più grandi. Una forza politica come la nostra, infatti, non può soffiare sulle divisioni, non può alimentare i rancori e le frustrazioni, ma propone una prospettiva nazionale, ripensa il Sud come la chiave dello sviluppo dell’intero paese. Ma anche qui non basta enunciare un principio, un progetto, dobbiamo dire come intendiamo farlo. Io credo che siamo sulla strada giusta quando ci poniamo il problema di un nuovo Mezzogiorno all’interno dell’ipotesi di un nuovo federalismo, che implica una necessaria responsabilizzazione delle classi dirigenti meridionali.

Un’Italia più unita richiede anche la necessità di superare uno steccato antistorico come quello che rischia di dividere i laici e i credenti, specialmente su questioni concernenti la bioetica. Secondo alcuni commentatori, l’attuale dibattito sul testamento biologico, così come su altre questioni riguardanti la bioetica, evidenzierebbe uno scontro fra una posizione integralista cattolica, fondata sulla difesa dell’indisponibilità della vita, e una piattaforma laicista, incentrata sulla difesa dei diritti dell’individuo. La mia opinione è che si tratta di una visione deformata, parziale, fortemente condizionata dallo scontro politico e ideologico che in Italia imperversa su qualsiasi questione, anche su materie che dovrebbero contemplare, per la loro natura, una maggiore conoscenza scientifica e una doverosa libertà di coscienza. Sono convinto, infatti, che la diversità di opinioni su problemi come quello del testamento biologico coinvolge sia i credenti che i non credenti. I dubbi, gli interrogativi, le preoccupazioni, i dilemmi, le autentiche sofferenze di fronte a questioni complesse come quelle riguardanti la nostra vita e perfino la nostra morte, attraversano in egual modo i credenti e i non credenti, i cattolici e i cosiddetti «laici». Per questo sono d’accordo con il mio amico Fabrizio Cicchitto quando ha ricordato che fra le ragioni fondative del nostro partito vi è proprio l’incontro tra laici e credenti.

Dobbiamo proseguire politicamente e culturalmente lungo questa strada, con saldezza di principi sì, ma con spirito aperto e dialogante. La Chiesa cattolica ha non solo il diritto, ma il dovere di affermare i principi fondamentali del proprio magistero. E noi, almeno per chi crede, abbiamo il dovere di ascoltarla sempre, non solo quando ci fa comodo, non solo su alcuni punti e altri no, solo se corrispondono alle nostre convenienze. Perché la Chiesa sia che parli del testamento biologico sia che intervenga sui problemi dell’immigrazione, parla sempre con una voce sola, che discende dagli stessi principi e valori. Per queste ragioni quando Bossi dice: «Siamo l’unico partito con radici cristiane», compie una scelta impegnativa e ammirevole, anche se parzialmente vera. Non solo la Lega, ma anche altri partiti, noi stessi, rivendichiamo radici cristiane, ma bisogna chiarire che il problema riguarda il modo in cui chi ha responsabilità politiche o di governo è capace di tradurre queste radici, questi principi, lo stesso insegnamento della Chiesa in specifici provvedimenti legislativi. Questo è il compito della politica. Spetta alla politica trovare e individuare le soluzioni concrete, elaborare provvedimenti legislativi capaci di tutelare alcuni principi fondamentali, fra cui in primo luogo quello del rispetto della vita umana. Qui si situa anche la responsabilità dei politici, e dei cattolici in particolare. Questo è lo spazio della laicità della politica, lo spazio nel quale i valori enunciati dal magistero della Chiesa possono trovare la possibilità di divenire legge di una comunità, attraverso l’arte del dialogo e del confronto con i laici, tenendo conto naturalmente dei risultati della comunità scientifica. Qui c’è lo spazio dell’autonoma responsabilità della politica e dei partiti politici che dichiarano da ispirarsi alla tradizione cristiana e al magistero della Chiesa cattolica. Il risultato finale deriverà non solo dall’impegno dei politici, non solo dalle buone leggi che saranno approvate dai parlamenti, ma alla fine soprattutto dai frutti dell’azione esercitata dalla Chiesa sulle coscienze, dalla conversione delle singole persone, dall’influenza dell’educazione soprattutto sui giovani.

L’Italia non è unita anche perché continua il disconoscimento reciproco tra le forze politiche. La scelta di Veltroni fu coraggiosa non solo per la volontà di dare vita ad una forza socialista riformista, ma perché presupponeva il riconoscimento reciproco. Questa scelta tuttavia è stata immediatamente contraddetta dall’accordo con Di Pietro, proprio perché l’alleanza con Di Pietro fa sopravvivere la contrapposizione politica. Oggi la sinistra non è più niente. Non hanno mai voluto cambiare, non hanno mai voluto fare i conti con la propria storia, e oggi sono cambiati senza saperlo e senza volerlo, divenendo però qualcosa di indefinibile politicamente e culturalmente. Culturalmente sono dei radicali (si è avverata la profezia di Augusto Del Noce): intendono la libertà come ampliamento dei soli diritti, come tirannia dei diritti; credono nella libertà come totale assenza di relazione, di responsabilità, di socialità. Sul terreno politico ciò che ispira, ciò che detta l’azione politica della sinistra non è più una cultura ma è l’istinto, e l’istinto è rimasto quello comunista del potere, dell’attacco e della denigrazione degli avversari politici. Questo istinto è ciò che rimane di una grande storia. Il Pd non è più un partito autonomo, ma è eterodiretto da un vero “superpartito” il cui cervello si trova nelle redazioni di La Repubblica. Il Pd, che sia Bersani o Franceschini il vincitore del Congresso, sarà annichilito dalla morsa congiunta di Di Pietro e di Scalfari. Il dramma dell’Italia è di non avere mai avuto un partito socialdemocratico; non è in vista neppure una moderna forza socialista riformista; all’orizzonte si profila invece un raggruppamento che ha come minimo comun denominatore in sostanza uno spirito antinazionale, antipopolare e di conseguenza fondamentalmente antidemocratico. Per questo – come ha scritto don Gianni – “siamo l’unica realtà in grado di dare all’Italia un governo” e siamo un governo che sta cambiando l’Italia senza che l’opposizione abbia una voce percepibile, che non sia quella del pessimismo, del catastrofismo, dell’ingiuria e del vituperio contro gli avversari.

Di fronte a questa sinistra, dobbiamo sempre chiederci: che ne sarebbe dell’Italia, che ne sarebbe dei moderati, che ne sarebbe di noi se in campo non ci fosse Berlusconi? Abbiamo l’idea di cosa può significare per un uomo un attacco forsennato, giudiziario politico personale, durato oltre quattordici anni, e condotto con tutti i mezzi possibili, compresi quelli più vigliacchi umanamente e politicamente? E dobbiamo pure ascoltare tutti quei soloni che hanno straziato la vita personale e politica di un uomo, di un leader di partito, di un uomo di governo e di uno statista, ergersi a difensori oggi della libertà di espressione? Dobbiamo sapere che finché sarà in campo questa sinistra e questi personaggi l’Italia non avrà mai una vita politica normale, non avrà pace ma sarà sempre dilaniata da una guerra civile strisciante. Nessuno si illuda, non illudiamoci, che dopo Berlusconi questi signori caleranno le armi! Altri saranno i nemici da abbattere, altri gli uomini da attaccare e da eliminare dalla vita politica, solo che decidano di opporsi al grumo di potere che essi rappresentano. E’ per questo che dobbiamo essere più vicini che mai a Berlusconi, perché la sconfitta di questa sinistra e del superpartito di Repubblica è la condizione essenziale affinché nasca un’Italia diversa. Tremonti ha ragione: «Berlusconi è una straordinaria personalità storica». La storia di questi anni lo dimostra. Se vogliamo essere onesti, dobbiamo ammettere, anche pubblicamente, che alcune questioni fondamentali per la sopravvivenza dell’attuale maggioranza (penso al modo in cui è emersa la questione di un partito del Sud o il rapporto con la Lega) non sarebbero risolvibili senza la leadership di Berlusconi, ma questo non significa non riconoscere che vi sono dei punti di forza su cui possiamo continuare a lavorare per il futuro.

Per la prima volta il consenso al governo non deriva solo dalla leadership di Berlusconi, ma anche dall’opera dei singoli ministri. Ho ammirazione per i miei colleghi, sia per quelli che hanno una maggiore esperienza e considerazione internazionale che per quelli più giovani. Vorremmo vivere in un paese diverso, nel quale la democrazia assomigli ad una partita di calcio, di bel gioco. Invece: noi riforme, loro calci negli stinchi. Abbiamo visto che abbiamo una identità culturale forte; che abbiamo una classe dirigente autorevole, che abbiamo un partito che non è più un brutto anatroccolo. Con Denis e Ignazio stiamo lavorando ad un partito il cui punto di forza diventi il territorio, per formare e selezionare a partire dal territorio una classe dirigente che può divenire – già in parte è così – l’ossatura del nuovo partito. Dobbiamo scommettere e investire sul territorio, sulla risorsa rappresentata dai nostri amministratori locali, sulle energie le ricchezze le intelligenze le passioni di tanti giovani che nelle comunità locali testimoniano i valori in cui crediamo e danno corpo ai nostri progetti politici. E’ venuto il momento di dimostrare chi siamo, ciò di cui siamo capaci, i valori che ci animano, la solidarietà fra di noi, la volontà che abbiamo di restare fedeli nel tempo a ciò che Berlusconi ha realizzato. La nostra missione perciò è quella di unire le forze, di lavorare come una squadra, di cementare una forza unita, di moltiplicare le occasioni di confronto, di assumerci la responsabilità di decisioni importanti. Quando discutiamo di politica, quando ricerchiamo insieme soluzioni, le nostre vecchie “maglie” perdono di valore e di significato. E’ attraverso l’abitudine al confronto che cresce una classe dirigente e matura una vera solidarietà fra di noi.

Su molte questioni, inoltre, non possiamo più affidarci alle dichiarazioni estemporanee dei coordinatori, o di altri dirigenti di partito o dei gruppi parlamentari, ma affidarci alle decisioni prese democraticamente negli organi dirigenti del partito. Io non ho dubbi sul fatto che le idee espresse dal presidente Fini abbiano arricchito il nostro partito. Esse non vanno perciò considerate con fastidio, bensì con uno spirito di autentico confronto e con la volontà, tipica della buona politica, di ricercare insieme soluzioni migliori ai problemi del paese. Sulla questione delle alleanze, ad esempio, in vista delle prossime elezioni regionali l’ufficio di presidenza deve poter esprimere una valutazione e giungere ad una conclusione assunta democraticamente. La mia opinione personale è che l’alleanza con la Lega rappresenti una scelta strategica. Perciò da tempo rifletto sull’ipotesi di una federazione, anche di carattere consultivo. Proprio per questo, proprio perché consideriamo l’alleanza con la Lega un’alleanza non effimera ma valida anche nel futuro, mi chiedo perché gli amici della Lega si vogliano impuntare in una serie di richieste sui candidati alle prossime regionali che sono sì legittime, ma che possono produrre, se venissero accettate, una inutile e ingiusta umiliazione delle ragioni del nostro partito. Se l’obiettivo fondamentale della Lega è quello di cambiare l’Italia, di modernizzare questo paese, allora dobbiamo creare le condizioni più favorevoli per raggiungere questo obiettivo. Per cambiare l’Italia siamo disposti a qualsiasi sacrificio, ma non siamo disposti a qualunque sacrificio per sostituire il candidato alla guida del Veneto, soprattutto quando l’attuale presidente ha ben governato insieme alla Lega.

Questa legislatura è determinante e irripetibile per cambiare profondamente l’Italia. Non sprechiamola per piccoli interessi di bottega. Per questo ci rivolgiamo anche all’Udc. Non possiamo non farlo, non fosse altro perché apparteniamo alla stessa famiglia politica in Europa. Questo significa che ci riconosciamo negli stessi principi di fondo, che condividiamo uno stesso programma. Certo, non ignoriamo le differenze che ci sono e la rottura che si è consumata. Rispettiamo tuttavia, la decisione dell’Udc di non aderire al Pdl e la strada dell’autonomia intrapresa dal partito di Casini. Noi crediamo che non giovi all’Italia abbandonare il bipolarismo sia pure imperfetto che abbiamo realizzato. Siamo dell’avviso, al contrario, che sia necessario stabilizzare il sistema dell’alternanza innanzitutto attraverso la costruzione di una grande forza politica moderata. Se la posizione dell’Udc è quella di attendere la disgregazione dell’attuale sistema, di aspettare pazientemente il dopo, credo che si tratti di una rinuncia alla politica. C’è un’altra possibilità per l’Udc: quella di concorrere, sia pure con la propria autonomia, a dare vita ad un sistema politico più stabile, più moderno, più europeo. La sinistra non può essere un interlocutore per l’Udc, che sia Bersani o Franceschini il prossimo leader del Pd. Noi invece, nonostante i nostri difetti, possiamo, dobbiamo esserlo. Noi ci proveremo, con l’arte della politica, della costruzione paziente di rapporti di fiducia e di collaborazione. Forse il messaggio positivo che quest’anno possiamo lanciare da Gubbio è proprio quello della politica, della politica come passione civile, della politica come spazio del confronto, della bella politica come la politica del fare e della politica delle idee. Don Gianni nel video che abbiamo visto lo ha detto rispondendo ad una domanda: “si può fare politica senza cultura? Sì, si può fare, molti lo fanno, ma è noiosa”. E alla fine tradisce se stessa (da Ragionpolitica.it). 

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