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Il qualunquismo di Elio Germano

Magari suo fratello fosse figlio unico… Invece sono in tanti, i Germano. Premiati e arrabbiati. Italiani e dissociati. Un altro comunista con la pancia piena, come direbbe tra sé e sé la nonnina d’Italia posando il giornale sul tavolinetto del salotto e riponendoci sopra, con cura, i suoi occhiali bifocali con quel gesto misurato, pacato, saggio, terribilmente familiare. E suo marito, un Attilio, un Bruno, un Aldo… un qualcosa così, chioserebbe sospirando in lombardo: «Son minga pirla cheschì». Che in napoletano, il suo amico Gennaro, conosciuto ai tempi del militare, tradurrebbe con: «Piangono e fottono».
Elio Germano ha trionfato al Festival di Cannes con il film di Daniele Luchetti La nostra vita. Ha vinto, ex aequo con Javier Bardem, il premio per la miglior interpretazione maschile. Era dal 1987 che all’Italia non andava un simile riconoscimento, dai tempi di Oci Ciornie, con Marcello Mastroianni. Germano ha trent’anni, era comprensibilmente euforico e parlare non costa niente. Però è noto ciò che ha approfittato per dire, in occasione della Palma: «Siccome i nostri governanti rimproverano gli artisti di parlare male dell’Italia, dedico il premio all’Italia e agli italiani, che fanno di tutto per rendere migliore il nostro Paese nonostante la classe dirigente».
Che bello quando uno, in simili circostanze, si limitava a ringraziare la mamma (peraltro quella di Germano era a casa, emozionatissima e in lacrime e una parolina le avrebbe magari anche fatto piacere). Che bello quando le vittorie restavano personali e il «morettismo» non aveva ancora pervaso tutto il cinema dello stivale. Che bello quando uno se ne usciva da un Festival come da un esame all’università superato col trenta e aveva solo voglia di ridere e di esser grato e di bere birra con gli amici. Invece si è ammalato tutto. E Germano, bravo, gagliardo e in smoking, è salito sul palco della Croisette come il Che entrava nella rivoluzione.
Certo, la battaglia non l’ha aperta lui. Si erano sentiti accusati per il fatto di essere, sostanzialmente, un po’ dei «fannulloni» gli attori e i registi nostrani, tipi inacapaci di raccontare la nostra realtà, chiusi in intorcinamenti nichilisti. E c’è da capirli: non l’avevano presa bene. E allora, quando uno riceve un premio per il cinema italiano, si sente in dovere di difenderlo il cinema italiano. E dal «loro», dal suo punto di vista, c’è sempre e solo qualcuno contro cui difendere il cinema e non solo quello: il governo. Quello per colpa del quale piove, perfino. Premiano i film, ma è sempre lo stesso film. «Il bello di essere insignito è che posso dire tutto quello che penso» ha spiegato l’attore. Come se non fosse possibile dirlo sempre ciò che uno pensa.
Come se non fosse possibile, anche oggi, e anche in Italia, dirlo dalla tv, dalle piazze, dai giornali e dai festival del cinema. Non è stato il premio, è stato l’eccesso di euforia, l’orgoglio d’appartenenza, la necessità di appartenenza. Nei confronti di un cinema monocolore e monopensiero al quale è un dovere appartenere. Se si vuol essere considerati, se si vuole andare a Cannes, se si vuole stare sul lato giusto della Croisette. Germano è giovane e ipoteca il futuro.
E allora anche lui, che a trent’anni ha già fatto un sacco di film importanti (da Mio fratello è figlio unico, con cui aveva già vinto un David di Donatello, a Il passato è una terra straniera a Come Dio comanda…) nel giorno della sua consacrazione ha sentito il bisogno di far capire da che lato sta. Da che lato bisogna stare se si fa il suo mestiere. In realtà, dispiace più per lui: perché a trent’anni le vittorie potrebbe tenersele addosso meglio, più pulite. Potrebbe tenersele per sé.
 

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