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Il primo “leghista” della storia fu Cavour

È noto che alcuni fra i principali padri della patria – Gioberti, Rosmini, d’Azeglio – pensavano a un Regno d’Italia che si estendesse soltanto a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani: in pratica quella che oggi viene chiamata Padania. Dello stesso avviso era il vero creatore dell’Unità italiana, Camillo Benso conte di Cavour: come ha ricordato l’altroieri su queste pagine Gilberto Oneto, nel 1858 il conte concluse con Napoleone III, a Plombières-les-Bains, un patto in tal senso. Proprio da quell’incontro inizia il nuovo libro di Arrigo Petacco Il Regno del Nord. 1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi (Mondadori, pagg. 192, euro 19). Un libro eccezionale per scrittura e capacità di sintesi, che dà un altro colpo ben assestato alla tradizionale, enfatica, retorica risorgimentale.
Si decise che il Regno di Sardegna, ovvero il Piemonte sabaudo, avrebbe aiutato la Francia in una guerra contro l’Impero austroungarico, per avere in cambio il resto dell’Italia settentrionale, ancora sotto il dominio asburgico. Cavour era arrivato a Plombières con una nota semplice semplice: «Il papa non andrebbe toccato lasciandogli Roma e il terreno circostante. Raggiunta la pace dovrebbe poi farsi una Lega delle tre Italie. La Superiore dal Piemonte alle coste dell’Istria e della Dalmazia con le Bocche del Cattaro sotto il re Sabaudo. La Inferiore sotto il re Borbonico se non si potesse mettere altri. La Centrale sotto il re che più conviene». Insomma, una confederazione di tre regni, sotto la presidenza onoraria del papa, per compensarlo dei territori perduti in Italia centrale.
Cavour non era mai stato più a sud di Firenze. Gli interessava soltanto l’espansione del Regno di Sardegna lungo la ricca linea del Po. Per lui la faccenda dell’unità nazionale era roba per intellettuali romantici, una «tragica corbelleria». Inoltre, era pieno di pregiudizi antimeridionali. Si era dimostrato abilissimo imprenditore nelle sue proprietà e fu un eccezionale statista, benché lontano dall’immagine solenne che ci è stata tramandata. Vittorio Emanuele II non lo ebbe mai in simpatia, e certo non perché libertino. Quando gli venne suggerita la nomina di Cavour sbottò in piemontese, la lingua che conosceva meglio: «E va bin. Coma ch’al veulo lor! Ma ch’a stago sicur che col lì an poch temp an lo fica an’t el pronio a tuti».
«Cavour, d’altronde, non era un rivoluzionario», nota Petacco: «Refrattario agli entusiasmi e ai sublimi sacrifici, non credeva nelle insurrezioni popolari e neppure nel volontarismo eroico ma confusionario. Preferiva i battaglioni bene armati e disciplinati». Così nel 1855 spedì quindicimila bersaglieri a combattere in Crimea, contro la Russia, in una guerra che non riguardava l’Italia ma che stava molto a cuore a Napoleone III. Né rinunciò ad altre armi, come scatenare su Napoleone l’attenzione della giovane, bella, spregiudicata contessa Virginia di Castiglione.
Non per essere iconoclasti a tutti i costi, ma è il caso di aggiungere che il famoso «grido di dolore» pronunciato in Parlamento da Vittorio Emanuele II fu una correzione di pugno fatta da Napoleone al testo del discorso, preventivamente sottopostogli. La Seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, fu vinta, ma un accordo fra Napoleone e Francesco Giuseppe prevedeva solo la cessione della Lombardia, niente Veneto. L’imperatore dei francesi si era irritato – anche – perché il rivoluzionario Garibaldi era stato arruolato con i suoi volontari nel regio corpo dei cacciatori delle Alpi con uniforme piemontese.
Garibaldi non fu contento di come erano andate le cose. In compenso, s’innamorò della marchesina diciottenne Giuseppina Raimondi. Lui aveva passato i cinquanta, ma era «l’Eroe dei due Mondi». E, soprattutto, lei era rimasta incinta di uno dei due amanti che aveva all’epoca. Le nozze furono celebrate in gran fretta il 6 gennaio 1860, con un colpo di scena: uno dei due amanti consegnò una lettera a Garibaldi, dicendogli la verità. Lei non negò e lui, in pubblico, la abbandonò con una frase non entrata nei libri per le scuole: «Signora, voi siete una puttana!». Poi scomparve dalla vita politica proprio mentre Cavour riusciva, grazie a plebisciti abilmente manovrati, ad annettere Toscana, Modena, Parma. A quel punto propose al re delle Due Sicilie, il giovane Francesco, il suo progetto federale, disposto anche a cedergli Marche e Abruzzo. Quando a Francesco venne mostrato il piano commentò: «Chella è robba d’o papa! La robba d’o papa nun se tocca!». Perse così l’occasione storica per salvare il regno e modificare in senso meridionalista il Risorgimento.
A quel punto Francesco Crispi, siciliano di forte tempra e di ambizioni ancora più forti, pensò di rivolgersi a Garibaldi, convincendolo a organizzare una spedizione in Sicilia. Al generale non sembrò vero di dimenticare la disavventura coniugale, anche se capì subito che Cavour gli avrebbe procurato guai, con «quella rete di insidie e di miserabili contrarietà che perseguiteranno la spedizione fino all’ultimo», come scrisse nelle sue memorie. A Vittorio Emanuele II, invece, brillavano gli occhi al pensiero che qualcuno gli potesse conquistare, gratis, il Regno delle Due Sicilie. Alcuni giorni prima dello sbarco, Cavour prese di petto il suo re: «Bisogna arrestare Garibaldi prima che metta nei guai il nostro governo». Non la pensava così, ma voleva vedere come sarebbe andata a finire. E poteva finire davvero male: i garibaldini sarebbero stati respinti se di fronte a sé non avessero trovato il generale Francesco Landi, 72 anni, che seguiva le truppe in calesse a causa della prostata. Appena ricevuto il comando aveva scritto al figlio: «Vendi pure i nostri cavalli: ora abbiamo quelli dell’esercito».
I governi di tutta Europa erano allarmati per l’avanzata dell’esercito rivoluzionario in camicia rossa e anche alcuni liberali, come Domenico Guerrazzi, volevano fosse respinta la proposta – stavolta accolta da Francesco – della Lega con il nord: «Non sarebbe una Lega», scrisse Guerrazzi, «ma il supplizio di Massenzio: un cadavere legato a un corpo vivo!». Cavour, ormai deciso a fermare Garibaldi, indusse Vittorio Emanuele a ordinargli di rinunciare all’avanzata. Garibaldi rifiutò di obbedire e l’8 agosto iniziò l’invasione della Calabria: «Tradimento!», dichiarò Cavour. Ma Garibaldi aveva obbedito agli ordini segreti di Vittorio Emanuele. Il 7 settembre 1860 entrò a Napoli, deciso a proseguire la marcia verso Roma. Cavour, a quel punto, capovolse la sua strategia e si trasformò – da federalista – in paladino dell’unità nazionale. Ora doveva solo impedire a Garibaldi di marciare su Roma e realizzare la congiunzione fra l’Italia centrosettentrionale e quella meridionale. Per occupare il Regno delle due Sicilie, l’esercito avrebbe dovuto violare i confini dello Stato della Chiesa; come avrebbe reagito Napoleone III? Un capolavoro di Cavour fu convincerlo che, dietro Garibaldi, c’erano Mazzini e altri rivoluzionari e che, se non si fosse fermato Garibaldi, la rivoluzione si sarebbe estesa allo Stato della Chiesa. Ottenuto il via libera, Cavour organizzò la spedizione militare, nell’entusiasmo di Vittorio Emanuele. Fu però un gioco di equilibri internazionali a permettere l’operazione, soprattutto l’appoggio inglese, che voleva un contrappeso alla Francia nel Mediterraneo.
Per maggiore sicurezza, Cavour inviò a Napoli Luigi Carlo Farini, l’uomo che, dopo di lui, Garibaldi odiava di più. Farini, appena giunto a Napoli, aveva scritto al primo ministro: «Altro che Italia, signor conte! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono un fior di virtù civile!». Come dare torto al commento finale di Petacco? «Era con tali sentimenti che i fratelli del Nord si preparavano all’integrazione con i fratelli del Sud» (da IlGiornale).

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