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Sull’altro fronte, invece, c’è da contenere l’avanzata centrista dell’ex sindaco di Roma, che potrebbe attrarre troppo i moderati democratici. La diaspora, Bersani lo sa, va evitata in ogni modo. Perché il Pd deve, per forza di cose, allargare i suoi orizzonti e non isolarsi, per poi galleggiare nei mari poco tranquilli del conservatorismo ideologico.
Il pragmatismo del numero uno democratico lascia comunque ben sperare gli osservatori: probabilmente riuscirà, con l’intelligenza e il carattere che lo contraddistinguono, a creare nel tempo un’alternativa plausibile al centrodestra. Contribuendo a civilizzare il confronto politico nel paese.
Ma la strada è davvero lunga e piena di ostacoli. Il problema è sempre lo stesso: la sinistra italiana è ancora orfana di quella grande idea liberale e riformista, che da sempre caratterizza la maggior parte dei progressisti nel resto del continente. E che potrebbe, di fatto, incrementare il bacino dei consensi e rilanciare la propria immagine. Oggi, nella contrapposizione tra dipietrismo e centrismo, giustizialismo e moderatismo, non sembra però esserci troppo spazio per coltivarla.
Su questo Bersani, come tutti i suoi predecessori, non può fare tanti miracoli. E’ un peccato originale quasi impossibile da cancellare. Servirebbe uno sconvolgimento, una nuova classe dirigente, cresciuta culturalmente dopo e non prima la caduta del Muro.
E per farcela, l’ultimo leader del Pd, dovrebbe politicamente negare se stesso.