Gran parte della cultura italiana è condizionata, ancora oggi, dalle influenze sessantottine. Non è una notizia e nemmeno una provocazione. Nessuno quindi dovrebbe offendersi. E’ semplicemente un dato di fatto.
Tante sono le personalità che vengono da quel mondo o che comunque ne raccolgono l’eredità. Questo vale anche per il settore dei media e dell’informazione. E’ una questione generazionale (i ventenni di allora sono i sessantenni di oggi protagonisti sulla scena) e anche -appunto- culturale. C’è chi, per motivi anagrafici, non ha vissuto quei momenti, ma ha edificato la sua formazione professionale subendo il fascino di quell’evento.
Sia chiaro: non vi è intenzione di processare il ’68. Lo ha fatto, in parte, già la Storia. Servirebbero poi ore e ore di confronti e discussioni. Esercizio interessante per capire l’Italia di oggi.
Ma adesso il proposito è un altro: sottolineare come questo “sentimento”, questo modo di essere e vivere l’esistenza si sia trasformato nel suo opposto.
Sarebbe sbagliato condannare in toto quella rivoluzione. All’epoca c’era un Paese ancora troppo ipocrita, statico, conservatore, primitivo. In una sola parola: vecchio. Il boom economico, il tanto bistrattato capitalismo erano riusciti a dare una spinta decisiva alla nazione. Ma le gerarchie, come da copione, opponevano resistenza.
I moti studenteschi, pur tra mille contraddizioni, erano quindi riusciti a mettere in discussione dogmi superati da una società che invece voleva imparare a crescere.
Le follie del terrorismo e il lento e inesorabile declino della prima repubblica hanno poi costruito nuovi scenari e fatto esaurire il tanto agognato cambiamento.
Resta oggi la sua cultura, che però si appalesa come un regime impegnato a difendere in tutti i modi l’esistente.
La maggioranza degli italiani sostiene un governo che vuole cambiare e ha già cambiato tante cose. Ma contro ha quella minoranza, che può far ancora leva sul suo domino mediatico ed intellettuale.
Il gioco si ribalta: chi una volta invocava nelle piazze una nuova Italia adesso attacca chi la pensa diversamente e si preoccupa di preservare vecchi privilegi, che poco hanno a che fare con quell’antico e in un certo senso nobile sentimento di rivoluzione.
Contrappasso? Scherzo del destino? Può darsi.
Ma un dato è certo: quegli “eroi” sono passati, ormai da troppo tempo, dall’altra parte di questa ideale barricata.
E’ pertanto opportuno che qualcuno glielo faccia notare.
Tante sono le personalità che vengono da quel mondo o che comunque ne raccolgono l’eredità. Questo vale anche per il settore dei media e dell’informazione. E’ una questione generazionale (i ventenni di allora sono i sessantenni di oggi protagonisti sulla scena) e anche -appunto- culturale. C’è chi, per motivi anagrafici, non ha vissuto quei momenti, ma ha edificato la sua formazione professionale subendo il fascino di quell’evento.
Sia chiaro: non vi è intenzione di processare il ’68. Lo ha fatto, in parte, già la Storia. Servirebbero poi ore e ore di confronti e discussioni. Esercizio interessante per capire l’Italia di oggi.
Ma adesso il proposito è un altro: sottolineare come questo “sentimento”, questo modo di essere e vivere l’esistenza si sia trasformato nel suo opposto.
Sarebbe sbagliato condannare in toto quella rivoluzione. All’epoca c’era un Paese ancora troppo ipocrita, statico, conservatore, primitivo. In una sola parola: vecchio. Il boom economico, il tanto bistrattato capitalismo erano riusciti a dare una spinta decisiva alla nazione. Ma le gerarchie, come da copione, opponevano resistenza.
I moti studenteschi, pur tra mille contraddizioni, erano quindi riusciti a mettere in discussione dogmi superati da una società che invece voleva imparare a crescere.
Le follie del terrorismo e il lento e inesorabile declino della prima repubblica hanno poi costruito nuovi scenari e fatto esaurire il tanto agognato cambiamento.
Resta oggi la sua cultura, che però si appalesa come un regime impegnato a difendere in tutti i modi l’esistente.
La maggioranza degli italiani sostiene un governo che vuole cambiare e ha già cambiato tante cose. Ma contro ha quella minoranza, che può far ancora leva sul suo domino mediatico ed intellettuale.
Il gioco si ribalta: chi una volta invocava nelle piazze una nuova Italia adesso attacca chi la pensa diversamente e si preoccupa di preservare vecchi privilegi, che poco hanno a che fare con quell’antico e in un certo senso nobile sentimento di rivoluzione.
Contrappasso? Scherzo del destino? Può darsi.
Ma un dato è certo: quegli “eroi” sono passati, ormai da troppo tempo, dall’altra parte di questa ideale barricata.
E’ pertanto opportuno che qualcuno glielo faccia notare.