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Il Caso C. non è affatto chiuso. Neppure il Caso B.

Ieri, nel corso della trasmissione di Rai Tre condotta da Lucia Annunziata, In mezz’ora, Stefania Craxi ha letto tre righe tratte dalla sentenza della VI sezione penale della Cassazione sul caso Enimont: “si può dare anche atto a Craxi che in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che ne abbia ricevuti a sue mani. Ma queste circostanze – che forse potrebbero avere un qualche valore da un punto di vista, per così dire, estetico – nulla significano ai fini dell’accertamento della responsabilità penale”.
Tre righe agghiaccianti che, da sole, costituiscono la prova provata del fatto che l’operazione Mani Pulite sia stata un’operazione politica che nulla ha a che vedere con il diritto penale e con le fondamenta di una società libera e di uno Stato di diritto.
Secondo i magistrati più titolati, quelli di Cassazione, non importa nulla se Craxi ha chiesto denari o ne ha ricevuti in cambio di leggi (questa l’accusa del processo Enimont). Quello che conta è che denari sono transitati dall’Enimont ai partiti e, per quel solo motivo, Craxi – in quanto segretario di partito e di partito di governo, è penalmente (non politicamente, si badi) responsabile.
Ed è proprio la trasformazione della responsabilità politica in responsabilità penale la leva eversiva con la quale un settore consistente della magistratura ha compromesso lo Stato di diritto, la credibilità dell’intero corpo giudiziario e, sopratutto, la fiducia nelle regole ordinamentali, le quali non hanno impedito che potesse prodursi una rottura dell’ordinamento democratico di tale gravità. L’Italia, infatti, è l’unico Paese del mondo libero in cui la giustizia è diventata arma di lotta politica e in cui la magistratura associata si è fatta protagonista della lotta politica, senza che la Costituzione scritta e quella materiale mettessero in funzione un qualche antidoto.
Sul Corriere della Sera del 3 gennaio scorso, in un editoriale di prima pagina, Luigi Ferrarella si chiedeva retoricamente: “Può un pluricondannato essere uno statista?”. E altrettanto retoricamente si rispondeva: “Certo che sì, a patto di non pretendere che il riconoscimento del suo oggettivo rilievo storico passi la spugna sulle responsabilità accertate, e di non credere che la fedina penale ne esaurisca la parabola personale”. E aggiungeva: “Non si scioglie l’ipocrisia che puntualmente, ad ogni inciampo giudiziario di un potente, fa salmodiare la litania «aspettiamo le sentenze, attendiamo che la giustizia faccia il suo corso»: poi, però, quando le sentenze arrivano davvero, ecco che quelle stesse sentenze, così tanto invocate quando servono solo a rinviare un’assunzione di responsabilità, di colpo è come se non valessero più nulla”.
C’è in queste parole – messe in prima pagina dal più prestigioso quotidiano nazionale – qualcosa di più che il pericoloso trasmutare giustizialista della verità giudiziaria in verità storica e politica. C’è la dichiarazione di una fede cieca e assoluta nell’opera del Magistrato, la convinzione che egli rappresenti la Legge e la Verità – entrambi assoluti – e pertanto indiscutibili. C’è un nuovo fondamentalismo ideologico che pone pregiudizialmente al riparo la Giustizia (anch’essa assoluta) da qualunque spirito critico su cui si fonda, invece, la civiltà occidentale e lo Stato di diritto. La sentenza non è più, quindi, un atto umano, ma un pronunciamento di uno Spirito Superiore.
Eppure quelle tre righe dovrebbero rappresentare ad uno sguardo privo di pregiudizi un evidenza impossibile da aggirare.
Qualche giorno fa, mentre assistevamo ad un telefilm ambientato in tribunale degli Stati Uniti, un amico mi chiedeva se non considerassi contrario all’idea di giustizia giusta il fatto che gli avvocati, nell’affrontare una giuria popolare, non si preoccupassero solo di studiare le carte dell’accusa, ma ponessero molta attenzione su elementi che, in apparenza, non hanno a che vedere con l’accertamento di una verità. Come, ad esempio, il modo di porsi dell’accusato, la sua immagine pubblica, l’abbigliamento degli avvocati, il tono di voce utilizzato e così via.
La mia risposta è stata: no. Perché rendere espliciti tutti questi elementi smaschera l’atmosfera para- religiosa che circonda il processo e restituisce l’atto – il rendere giustizia – a una dimensione umana, facendo crollare il totem su cui poggia il dogma dell’indiscutibilità delle sentenze e dell’opera dei magistrati.
Su quel dogma fonda il suo potere reale un segmento non marginale della società italiana, quel coacervo di protagonisti che costituisce il “partito dell’odio”, come ha efficacemente e opportunamente illustrato alla Camera, subito dopo l’attentato al premier, il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto.
È anche per questi motivi che il Caso C. non è affatto chiuso. Come il Caso B. E che per chiuderli occorre una grande riforma che impedisca che quelle tre righe della sentenza Enimont possano essere più scritte “in nome del popolo italiano”.
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