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gli equilibri di gaza

Il conflitto arabo israeliano continua a far parlare di sé. Le vicende tumultuose di queste settimane (razzi di Hamas, reazione pesante di Israele, tregue unilaterali) hanno riacceso i riflettori su uno dei conflitti politicamente più rilevanti del secondo dopoguerra. Il primo sentimento è quello dello sgomento per le vittime civili. Allo sgomento, però, deve seguire un’analisi che ci porti al cuore del problema. Solo così si può tentare di risolverlo.
Obbiettivo comune, condiviso da buona parte della comunità internazionale e (almeno a parole) dalla totalità delle forze politiche italiane: due popoli due stati.
A questa prospettiva ho cominciato a credere soltanto nel 2005, quando Israele si ritirò unilateralmente dai territori occupati. Fu un segnale politico chiarissimo e potente in direzione della pace. Qualcuno si è forse dimenticato le immagini dei soldati israeliani che trascinavano di peso i coloni loro connazionali che non accettavano di lasciare i territori in cui abitavano fin dalla nascita?
Cosa si è fatto da parte palestinese per dare un segnale altrettanto forte in direzione della pace? Niente. A bene vedere, l’unica conseguenza concreta del ritiro di Israele è stata l’occupazione fisica e politica di quei territori ad opera di Hamas, che li ha usati come frontiera avanzata per intensificare il raggio di azione dei razzi da lanciare su Israele.
C’è chi ritiene, in primis D’Alema, che la strategia migliore per isolare questa organizzazione terroristica sia il negoziato. Bombardare la Palestina, questo è il ragionamento dell’ex ministro degli esteri, è da ingenui perché rafforza Hamas, ne aumenta il consenso. Il negoziato, viceversa, la metterebbe in imbarazzo, all’angolo, “fuori gioco”. Questa posizione ha una sua logica ma è macchiata da due vizi originari. Primo: Hamas non ha alcun interesse a negoziare, ed è impossibile negoziare con chi non vuole farlo. Secondo: Hamas ha fra i suoi fini statutari la distruzione fisica di Israele. Stando così le cose, dunque, è evidente che neppure Israele crederà mai nella possibilità di un accordo con chi vuole la sua eliminazione dalle cartine geografiche.
Appare dunque evidente che l’unica strategia che può dare dei frutti nel lungo periodo è l’isolamento politico, diplomatico e economico di Hamas. La proposta del governo italiano di promuovere un Piano Marshall per la Palestina finanziato dalla comunità internazionale va in due direzioni, entrambe favorevoli alla causa della pacificazione reale. Anzitutto si creerebbero le condizioni per una rinascita economica della Palestina martoriata da decenni di guerra. In secondo luogo, si darebbe alla comunità internazionale un potente strumento economico e politico per isolare Hamas tagliandola fuori dai finanziamenti e dal processo di ricostruzione.
Se Israele ha commesso degli errori è giusto evidenziarli e stigmatizzarli. Deve però essere chiaro a tutti che il cuore del problema non è Israele o il suo eccesso di legittima difesa. Il cuore del problema è che il processo di pace in quelle terre è ostaggio di un’organizzazione terroristica di nome Hamas che odia Israele più di quanto ama la Palestina.

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