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Giustizia, avanti con la riforma

In politica, come nella vita, gli errori si compiono. Non è un dramma. Ci sono errori gravi e meno gravi, l’importante è far tesoro degli sbagli ed evitare di ripeterli. È una considerazione banale? Può darsi, ma evidentemente non per alcuni esponenti della maggioranza che paiono voler ripetere, appunto, gli errori del passato. Non si può far melina sulla riforma della Giustizia che, come e più della Scuola, è da anni ben oltre il collasso e la schizofrenia.
Di più. Come ha osservato Francesco Cossiga, ‹‹quello che la Costituzione voleva fosse soltanto un ordine si è trasformato in un vero e proprio potere politico irresponsabile: la magistratura››.
Ne è perfettamente consapevole il Presidente del Consiglio che ha in mente di procedere senza indugi ad una riforma del sistema giudiziario. Il premier ha parlato da tempo non soltanto della stracitata separazione delle carriere ma anche dei tempi infiniti della giustizia civile che limitano la competitività economica del nostro Paese rispetto al resto d’Europa. C’è molto da fare e non c’è tempo da perdere, non ci sono generici “punti” da dettare. C’è da prendere il toro per le corna. C’è da far lavorare il ministro della Giustizia ed evitare la logica del distinguo quotidiano.  
Su cosa si deve lavorare? Su un nuovo sistema che assicuri giudici terzi ed efficienti che tutelino tempestivamente i diritti dei cittadini. Occorre pertanto rivedere missioni e funzioni del tribunale della libertà e del giudice per le indagini preliminari. Occorre definire tempi certi per la nuova giustizia, intesa come indagini, rinvii a giudizio e infine sentenze. Occorre garantire la certezza della pena. Oggi assistiamo invece ad un sistema nel quale la pena consiste nella misura cautelare, l’avviso di garanzia vale da condanna e ciò a tutto svantaggio dell’innocente e a vantaggio del colpevole.
In altre parole: la riforma non serve, urge. E sarà l’ennesimo fiasco se si continuerà a credere che la giustizia serva ai magistrati, ai cancellieri e ai questurini. Essa deve invece essere al servizio dei cittadini.
Riuscirà il premier a vincere anche questa battaglia di civiltà? Ad oggi non v’è certezza perché la sinistra mostra ancora di essere condizionata dall’azione delle procure, dai ricatti interni e dalla cultura giustizialista che per anni ha coltivato e a destra la pantomima del dialogo serve solo a fermare chi intende procedere. Per questo, visto il degrado del nostro sistema giudiziario, i temporeggiatori non sono moderati, non sono “colombe” ma soltanto incoscienti.
Tuttavia i tempi sono più che mai maturi, la società è pronta per una riforma tanto attesa. È quindi difficile comprendere il senso dell’intervento del presidente della Camera. La situazione è largamente compromessa, non solo per quanto riguarda la giustizia civile ma anche per quanto riguarda la giustizia penale che è in crisi dal 1989, quando fu adottato il codice di procedura accusatorio ma non vennero introdotti i presupposti costituzionali del sistema (l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione di ordini e carriere).
Secondo il presidente della Camera, invece, ‹‹il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale garantisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge››. E’ la tesi di Magistratura democratica, non dei paesi liberi. Nei Paesi di common law, ma anche in Francia, non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, ma c’è lo Stato di diritto. Dato che è impossibile perseguire tutti i reati con uguali intensità e risorse, il principio dell’obbligatorietà è l’alibi che consente al pubblico ministero la scelta dei crimini da perseguire. Infine, secondo il presidente della Camera, ‹‹la separazione delle carriere dei magistrati è ipotizzata per garantire l’imprescindibile terzietà del giudice›› ma non può ledere ‹‹autonomia e indipendenza del Pm›› e determinare la ‹‹subordinazione del magistrato requirente ad altro potere che non sia quello giudiziario››.
È un po’ diverso. Nei Paesi di lunga tradizione democratica è indipendente il giudice, non il pubblico ministero, che rappresenta l’organo politico da assoggettare alla sovranità popolare, nella forma del Pm elettivo o in quella della sua subordinazione al ministro della giustizia. È una differenza teorica rilevante.
Ma è necessario superare le polemiche. Ci ha provato giovedì il capogruppo del PdL alla Camera Fabrizio Cicchitto rivolgendosi direttamente al Presidente Fini e richiamando le prerogative sia di chi presiede un ramo del Parlamento che del governo che deve guidare un Paese.

 

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