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FERRI: LE DECISIONI DELLA CASSAZIONE E LO SCOPO DEL PROCESSO

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in data  9 settembre 2010 (cfr. sentenza n. 19246) hanno stabilito che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente, a pena di improcedibilità (rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo), deve costituirsi (e quindi iscrivere la causa a ruolo) sempre entro 5 giorni dalla notificazione dell’opposizione, anche quando i termini a comparire sono stati concessi all’opposto senza alcuna riduzione.
La rimessione è avvenuta in assenza di conclamato contrasto di giurisprudenza, per cui la decisione delle S.U. ha improvvisamente mutato un orientamento consolidato da molti anni, secondo il quale, invece, il termine di costituzione può essere quello ordinario di 10 giorni quando l’opponente assegni all’opposto il termine ordinario di comparizione (fino al 2005 di 60 giorni, poi di 90 giorni, per l’Italia) o un termine maggiore; mentre, soltanto quando l’opponente si avvalga della facoltà di dimezzare i termini di comparizione ex art.645/2, assegnando al convenuto in opposizione un termine a comparire inferiore a quello ordinario, allora anche il termine per la costituzione di cui all’art.165 è ridotto alla metà e la costituzione tardiva, oltre i 5 giorni, è improcedibile (tra le altre, Cass., 7 aprile 1987, n.3355).
Ora, stante il nuovo dictum delle S.U., si sta ponendo di fronte a diverse autorità giudiziarie  il problema di come risolvere la questione per le cause di opposizione iscritte “prima” della sentenza. Secondo il mio modesto parere  la soluzione è che, avendo le S.U. cambiato le regole del gioco a partita già iniziata, l’opponente che ha assegnato all’opposto un termine a comparire di 90 giorni e, conseguentemente, ha iscritto a ruolo nel termine di 10 giorni, confidando nella precedente giurisprudenza consolidata, nella peggiore delle ipotesi, è incorso in una decadenza per causa a lui non imputabile e, pertanto, il giudice non dovrebbe dichiarare improcedibile l’opposizione, con conseguente esecutività del decreto ingiuntivo ex art.647, ma dovrebbe concedergli la rimessione in termini ai sensi dell’art.184-bis, ora abrogato, ma applicabile ratione temporis per le cause incardinate ante riforma 2009 (il 184-bis, infatti, è stato abrogato dalla riforma del 2009 e sostituito dall’art.153/2, norma di portata più generale, riguardante ora tutti i termini processuali). Ed infatti alcuni tribunali come il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione distaccata di Aversa, si stanno orientando proprio in tal senso, mentre altri stanno dichiarando l’improcedibilità anche ex ante.
Il Tribunale di Varese in una recente pronuncia (cfr. Tribunale di Varese, Sezione Prima civile, sentenza 8 ottobre 2010 estensore Buffone) contesta l’eccezione di improcedibilità del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in considerazione della non retroattività delle nuove regole processuali. Tale pronuncia individua come rimedio non già la rimessione in termini (contestata, tra l’altro, in Dottrina, dal Prof. Caponi), ma fa applicazione del principio dell’overruling affermato dalla giurisprudenza CEDU. Al contempo, la tesi della remissione sembra affermarsi con prevalenza nella giurisprudenza di merito: da ultimo Trib. Torino, sez. I civile, ord. 11 ottobre 2010, estensore Liberati.
La differenza tra l’uno (Varese) e l’altro (Torino) indirizzo interpretativo è evidente: l’orientamento varesino propone di prendere atto del fatto che, in Italia, oramai – almeno per le SS.UU. – si è arrivati ad un sistema affine a quello di common law, in cui il precedente giudiziario di nomofilachia è idoneo a divenire fonte del Diritto; l’orientamento torinese, invece, cerca all’interno del sistema stesso un rimedio per far fronte all’impasse, pur facendone una applicazione nuova.
In pratica, si tratta di linee interpretative diverse per raggiungere il medesimo obiettivo: evitare, in sostanza, che migliaia di procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo siano dichiarati improcedibili con una pronuncia di mero rito, senza che possano arrivare ad una sentenza che decida il merito della causa, accertando il rapporto tra le parti. Ciò comporta, oltre a ingenti pregiudizi per i cittadini, un grave vulnus al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale. Già nel passato, la Corte costituzionale (sentenza 16 ottobre 1986) ebbe occasione di affermare che il processo non è diretto allo scopo di sfociare in una decisione purchessia, ma allo scopo di rendere una pronuncia di merito, stabilendo chi ha ragione e chi ha torto. Lo scopo del processo, infatti, è quello di realizzare il fine ultimo e supremo di rendere giustizia sostanziale al cittadino che ricorre all’autorità giudiziaria.

*magistrato

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