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Da Il Predellino: Italia 2060, “divisa in partes tres”

Nel 2060, durante le prospezioni archeologiche per la fattibilità di un parcheggio sotterraneo al Pincio, collina della città Roma, è stato trovato un documento che sembra essere di grande importanza storica e che inizia così:  Italia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Padani, aliam Pidini, tertiam qui ipsorum lingua Borbonici, nostra Pidili appellantur. Hi omnes institutis, legibus inter se differunt. Duecento anni dopo l’unificazione italiana, che molte guerre era costata, si era giunti a una divisione politica in tre parti, attraverso un processo che l’autore del documento ci spiega.Il popolo più forte era il Padano, che occupava tutta l’area subalpina e la pianura del fiume Po. La loro società, definita da alcuni economisti come basata sul rischio, era caratterizzata da una diffusa intraprendenza economica, dallo sviluppo della produzione di beni e servizi, da un elevato grado di apertura dei mercati, da una ridotta intermediazione delle risorse da parte del potere politico. Prima della divisione, la società dei Padani aveva a lungo, e non senza buone ragioni, lamentato il fatto che parte consistente della ricchezza da loro prodotta veniva dirottata verso la rendita dei Borbonici e dei Romani, (quest’ultimo era un popolo di frontiera tra i Pidini e i Pidili abituato a vivere delle rendite derivanti dai tributi esatti altrove). Di qui l’abitudine dei Padani di cercare di sottrarsi all’oppressione tributaria attraverso ogni genere di stratagemma, più o meno consentito.La società dei Padani aveva una caratteristica che ne aumentava la forza. Nel loro sviluppo economico i Padani avevano portato nelle loro terre moltissimi originari dei Borbonici. A Mediolanum, il più importante centro padano, la comunità più numerosa era quella formata da Apuli, Messapici e Salentini, seguita da quella dei Campani. Più ancora degli Insubri, il combattivo popolo delle valli prealpine, erano i Borbonici immigrati i più decisi sostenitori della separazione della Padania.. A loro che si erano sobbarcati il peso della migrazione e la dura lotta per la sopravvivenza prima e il benessere poi, in una società che li trattava da stranieri, le lamentazioni dei parenti rimasti nelle loro terre ad aspettare la manna dal cielo apparivano intollerabili e beffarde. I Pidini, invece, che si erano stabiliti nella parte alta della terra bagnata dai due mari, avevano una organizzazione sociale ed economica piuttosto diversa, anche se altrettanto prosperosa. La loro era una società detta delle garanzie per la fitta rete di supporto sociale riservata ai suoi abitanti. I numerosi centri di produzione erano legati tra loro da istituzioni finanziarie speciali, chiamate cooperative, a cui erano riservate condizioni di particolare favore fiscale. Inoltre, il forte controllo territoriale da parte della prima organizzazione politica, il PD, favoriva la pace sociale e uno sviluppo ordinato, qualcuno diceva programmato, del territorio. Il primo obiettivo era garantire la ricchezza degli autoctoni, limitando l’afflusso di migranti. La Pidinia era stata immune dal fenomeno migratorio che si era verificato al momento dello crescita della Padania e aveva ben difeso i suoi confini dopo. Qualcuno lamentava lo strapotere politico ed economico dei politici e degli amministratori, ma si trattava di deboli e marginali minoranze. La vera debolezza della Pidinia però, nasceva dai deboli rapporti diplomatici con la Padania e con la Borbonia, dove pure aveva cercato di stabilire una sua enclave il Pidino Massimo da Gallipoli, città in cui in realtà si era insediato tardivamente. Qualcuno diceva anche che il vero limite dei condottieri del PD era quello di essere succubi della città di Roma e delle sue abitudini, tanto da rendere loro incomprensibili sia la realtà della Padania che quelli della Borbonia. Infatti, nonostante il capo assoluto avesse un nome sassone, Valter, veniva chiamato Uolter,  secondo l’idioma dei Romani.Il popolo più debole era quello dei Borbonici. Il loro territorio povero, rurale e frantumato, aveva ricevuto per decine di anni sussidi economici ingenti, nella illusione che potesse prima svilupparsi l’industria pesante, poi quella leggera, infine i servizi e il turismo. Ma invece di alimentare la crescita, gli aiuti economici che venivano dagli altri popoli, erano sciupati per mantenere attività improduttive e distruttrici di ricchezza sotto il nefasto influsso di politici e amministratori locali che scambiavano voti elettorali con posti di lavoro fittizi. Talvolta, e non così di rado, a impadronirsi delle ricchezze destinate da Roma erano briganti e malfattori, che in molte zone avevano stabilito un sistema fiscale e di polizia parallelo e contrapposto a quello ufficiale.Queste tre aree dell’Italia erano rimaste unite a lungo grazie alla politica del Regno della Libertà, guidato dagli anglosassoni emigrati nelle terre sull’altra sponda del Mare Atlantico, e che aveva fronteggiato le mire espansioniste dell’Impero Sovietico, fino a provocarne la caduta. Le terre emerse dell’Italia confinavano con la propaggine più occidentale dell’Impero Sovietico e non ci si poteva certo permettere una situazione di debolezza al confine dell’area di influenza del Regno della libertà.Venuta meno quella pressione unificante, le differenze tra le tre aree dell’Italia si erano aggravate e i conflitti divenuti più aspri.  Qualcuno aveva cercato di mantenere unita l’Italia cercando di costruire una nuova unità territoriale attraverso molti cambiamenti politici e statali. In particolare si era cimentato nello scopo un ricco uomo d’affari di una delle zone più ricche dell’area subalpina in Padania, la Brianza, che, lasciati gli affari ai figli, aveva costituito un raggruppamento politico che, a partire dal nome, difendeva l’unità e la forza dell’Italia. E che dopo alcuni anni si era allargato e aveva assunto la denominazione di PdL, ragion per cui i suoi adepti erano detti Pidili.Silvio da Arcore – che il popolo invocava con il solo nome, Silvio – pur appartenendo territorialmente alla Padania, dove il suo raggruppamento era molto importante, godeva di considerazione e consenso in tutte e tre le parti dell’Italia, in particolare presso i Borbonici. Soprattutto dopo aver liberato i campani da una calamità innaturale definita “tragedia dei rifiuti”. Inoltre la sua vita di uomo d’affari lo aveva portato ad avere una naturale vocazione unitaria. La sua famiglia produceva spettacoli in un unico idioma, l’italiano, e dunque tali attività avrebbero ricevuto un gran danno da una divisione del territorio che avrebbe anche eventualmente potuto portare a una divisione linguistica.Sin dall’inizio della sua opera di condottiero, Silvio aveva raggiunto un’alleanza con il forte gruppo politico indipendentista della Padania guidata dal condottiero Umberto da Varese. Base dell’accordo era l’idea di applicare in tutta Italia un modello organizzativo statale chiamato federalismo, la cui prima applicazione era il federalismo fiscale.Un’idea, una dottrina, che gli era stata suggerita da uno dei suoi principali consiglieri, Giulio da Lorenzago, che l’aveva studiata per anni e nei dettagli. Una teoria che effettivamente sembrava l’uovo di Colombo per rimettere in sesto l’Italia. Essa stabiliva che, viste le differenze dei territori, era bene che i tributi non fossero tutti versati nelle casse comuni poste a Roma, da dove venivano distribuiti in modo irrazionale. Essi dovevano invece essere prelevati, in una giusta misura e non secondo l’esosità del tempo, dai diversi territori. Così che gli abitanti delle diverse città potessero vedere come venivano spesi i loro soldi e dare o togliere fiducia a chi era delegato ad amministrarli. Si pensava in questo modo che si sarebbe potuto spendere il giusto per ogni opera e servizio pubblico, invece di dissipare sostanze e, talvolta, dare servizi scadenti.Sembrava andare tutto bene, fino a quando accadde l’imprevedibile. I Padani, sotto la spinta di Roberto da Bergamo, uno scudiero di Umberto da Varese, convinti che sarebbe convenuto loro riempire le casse pubbliche delle loro terre (tradendo la loro iniziale ispirazione a favore dei privati), si allearono con i Pidini, che venivano da una tradizione culturale di adorazione dello Stato, promettendo loro altrettanto tesoro pubblico. E in questo gioco i Borbonici, usi a chiedere invece che a fare, iniziarono a paventare la paura dell’abbandono. Tanto da portare gli ambasciatori di Pidini e Pidili, come Anna da Catania e Ignazio da Paternò, a semplicemente invocare che continuasse il flusso necessario a mantenere le terre borboniche povere, ma non alla fame.Il progetto che nella mente dei suoi ideatori, Giulio da Lorenzago e Silvio da Arcore, doveva accrescere la prosperità e l’unità dell’Italia, riducendo progressivamente le differenze, si trasformò nel suo opposto. Questo accadde anche per la confusione che regnava tra i Pidili, dove nei contrasti tra Uolter da Roma e Massimo da Gallipoli la spuntò il gruppo guidato da Chiampa da Torino, Filippo da Sesto, Bersa da Piacenza, Vannino da Firenze che decisero il ritiro dei Pidili nelle loro roccaforti più sicure.Evidentemente questa storia è completamente di fantasia e ogni fatto e riferimento a persone reali è puramente casuale. Chiunque si sentisse chiamato in causa ha diritto di replica. Da esercitarsi nelle aule e nelle commisioni di Monte Citorio e di Palazzo Madama. 

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