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Berlusconi e Tremonti

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Se il problema fosse quello del rapporto, personale, fra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, essi non dovrebbero fare altro che ricordare quel che avvenne in passato, con la non edificante scena di un ministro prima allontanato e poi ricollocato al suo posto, considerare che si sono riscelti dal poco (Berlusconi lo ha proposto a Napolitano, e Tremonti ha accettato e giurato di rispettare la Costituzione, dove c’è scritto che a dare la linea al governo è il suo presidente), quindi rinchiudersi in una stanza, dirsi il dovuto e farla finita. Ma il problema non è personale, bensì politico.
Non serve a niente cercare di mascherarlo, con polemiche artificiose, come quella sullo statalismo, oppure radicalmente dissennate, come quella sul sacro valore morale ed educativo del posto fisso. Sono sciocchezze, ed i protagonisti farebbero bene a non degradarsi al punto di credere che possano ingannare altri che i loro propri tifosi. Il tema che divide la maggioranza, che dividerebbe qualsiasi maggioranza, è assai più serio, ed ha a che vedere con la natura del nostro sistema economico ed istituzionale.
Tremonti ha gestito con abilità e saggezza il culmine della crisi finanziaria. Nel momento in cui altri (si pensi agli Usa, alla Gran Bretagna o alla Germania) spendevano per salvare i mercati, noi siamo rimasti fermi, protetti da un mostruoso debito pubblico, che ci impediva ulteriore spesa. Tremonti non ha potuto emulare Quintino Sella nel puntare al pareggio di bilancio, troppo squilibrato, ma ha potuto ispirarsi a lui nel praticare la lesina. Posto che non pochi dei soldi spesi dagli altri sono risultati buttati via, c’è andata bene.
In quel frangente è anche cresciuto il potere di Tremonti, perché Berlusconi è stato distratto da altro e perché, tirando i cordoni della borsa, il ministro dell’economia diveniva il vero pilota della politica governativa, stabilendo a quali iniziative dare ossigeno e quali asfissiare. Ha, però, commesso un tragico errore, che qui è stato continuamente segnalato, sperando di scongiurarlo: ha perso l’occasione della crisi ed ha teorizzato la permanenza in quello stadio patologico, come se il mondo potesse fermarsi e l’Italia essere lasciata in equilibrio innaturale. Non si trattava di scegliere fra statalismo e mercatismo, perché la spesa pubblica tornava ad essere decisiva ovunque, quindi la diatriba più oziosa del solito, ma di scegliere se puntare sulla conservazione del passato o sulla liberazione di forze che guardassero al futuro. E’ stata scelta la prima cosa, sbagliando.
Il governo s’è opposto ad ogni ritocco dell’età pensionabile, alzando quello delle pubbliche impiegate, ma solo perché l’Europa ci aveva condannati, ha teorizzato il non cambiamento quale terapia contro la paura, ha pompato soldi (in gran parte poi non spesi) nella cassa integrazione guadagni, segnalando l’impegno nella difesa dei posti di lavoro, più che dei lavoratori. Non ha avviato le riforme strutturali che sono urgenti da anni, quindi, forse, ritenute inutili: giustizia, mercato del lavoro, istruzione, infrastrutture. Quando Tremonti ha parlato del posto fisso ha messo la ceralacca ed il sigillo governativo su quest’andazzo conservativo. E’ una linea politica? No, è del tutto irreale.
C’è l’Italia dei non protetti e dei giovani, quella delle piccole imprese, quella dei professionisti, che se ne frega degli slogan e guarda alla sostanza, mettendo nel conto un 2010 doloroso. Inutile parlare loro del posto fisso, perché non ce l’hanno. Lo creiamo con la spesa pubblica? Improponibile, perché la spesa è già troppo alta, e per reggerla abbiamo un sistema fiscale che taglieggia gli onesti e lascia scappare i disonesti. Allora ecco la reazione, che non si concentra sul fronte delle riforme, ma su quello delle tasse: il governo ha già cancellato l’Ici sulle prime case, ora dice di volere cancellare (ma con procedimento omeopatico) l’Irap. Sono favorevolissimo, ma faccio osservare che sono due tasse il cui gettito è destinato agli enti locali (che lo spendono male). Alla faccia del federalismo fiscale! E, in ogni caso, si tratta di gettito cui le casse pubbliche non possono rinunciare se non tagliando la spesa pubblica corrente (quindi anche gli stipendi per i posti fissi) o liberalizzando quel che serve per far correre la ripresa, quindi far crescere il prodotto interno e, con quello, le entrate fiscali. C’è qualche cosa d’interessante e decisivo, in questa direzione? No. Ecco, questo è il problema politico.
Se si pensa di ridurre ciò allo scontro caratteriale fra due persone, o al conflitto fra due accentratori e uomini di potere, o al fatto che una parte della maggioranza parteggia per il ministro, sapendolo federalista, e l’altra lo avversa, perché vuol essere statalista, non si fa altro che prendersi in giro. La cosa grave è che prendere in giro gli altri non è carino, ma può essere conveniente, laddove, invece, prendere in giro se stessi è da matti. Quindi: quel che deve chiarirsi non ha nulla di personale, ma ha a che vedere con gli interessi collettivi. La concordia è preferibile alla lite, ma la prima non può reggersi scantonando i problemi e la seconda ha un senso se parte da quelli.

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