Recep Tayyp Erdogan, nelle vesti di segretario dell’AKP, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo turco, non parrebbe pronto a salutare con molto favore la possibile decisione della Corte Costituzionale turca circa lo scioglimento del DTP, Demokratik Toplum Partisi o Partito della Società Democratica. Se l’imminente sentenza, infatti, avesse un esito in tal senso, nel parlamento a maggioranza musulmana si rischierebbe di ricorrere nuovamente alle urne. Ma non solo.
La questione curda è ancora sanguinolenta mentre il PKK, Partito dei lavoratori curdi, è ancora fuorilegge. Il leader, Abdullah Öcalan, peraltro, è oggi in stato di detenzione in territorio turco, nel costante rischio di essere sottoposto a pena di morte. Certo, nel conflitto fra stato turco e PKK ci hanno rimesso la vita circa 40.000 persone e Öcalan è ritenuto colpevole di numerosi crimini contro l’umanità. Ma ha comunque diritto a un processo che gli garantisca il diritto di difesa. Se questo rappresenterebbe un passo verso la democrazia, così come è stata la sorta di amnistia concessa ai gruppi militanti del PKK, un enorme passo indietro sarebbe, invece, quello della sentenza contro il DTP.
Occorre sapere, infatti, che tale movimento rappresenta l’unico valido interlocutore in seno al parlamento per la negoziazione della questione curda. Il suo leader, Ahmet Türk, ha dichiarato che, qualora il suo partito venisse dichiarato fuorilegge, essi continueranno a lottare dal basso per i diritti del popolo curdo, una volta bloccati a livello istituzionale.
Ankara e il governo Erdogan non farebbero di certo una bella figura nei lustri dei salotti europei, deludendoci nonostante la buona condotta con l’Armenia, con la quale si starebbero riallacciando i primi rapporti commerciali, con la Siria, nuovo partner politico a seguito della pietra posta sopra Alessandretta, nonché con il Kurdistan, all’interno del quale, nonostante le accuse di sostegno alla guerriglia curda, è stata annunciata l’apertura di un consolato. Se i segni di distensione e di non sottomissione alla politica militare americana – in Turchia sono ancora presenti basi statunitensi ma non c’è stata nessuna prova di collaborazione nella guerra contro l’Iraq – si sposano volentieri con il progressivo laicismo nazionale come inaugurato da Ataturk, l’apogeo turco riprecipita verso il basso in vista di una tale probabile sentenza. Mentre gli europei, quindi, si accigliano per via della chiusura repentina di un canale di dialogo con l’unico esponente legale dei curdi, Erdogan si acciglia ancor di più, poiché, col via libera della sentenza, 14 membri del DTP sarebbero cacciati dal Parlamento e, sommandosi alle attuali vacanze, costringerebbero la nazione allo svolgimento di nuove elezioni.
La maggioranza, detenuta dallo stesso Erdogan, ha comunque in mano la situazione: dovrà dare il suo assenso alle dimissioni forzate dei parlamentari. La partita, quindi, è ancora aperta. Eppure, da Bruxelles si rimugina quotidianamente sull’opportunità dell’ingresso della Turchia in Europa, poiché, si vocifera, se tale decisione andasse in porto e il DTP fosse sciolto, non è escluso che Ankara e dintorni siano presi d’assalto da attacchi terroristici in segno di ritorsione.
La questione curda è ancora sanguinolenta mentre il PKK, Partito dei lavoratori curdi, è ancora fuorilegge. Il leader, Abdullah Öcalan, peraltro, è oggi in stato di detenzione in territorio turco, nel costante rischio di essere sottoposto a pena di morte. Certo, nel conflitto fra stato turco e PKK ci hanno rimesso la vita circa 40.000 persone e Öcalan è ritenuto colpevole di numerosi crimini contro l’umanità. Ma ha comunque diritto a un processo che gli garantisca il diritto di difesa. Se questo rappresenterebbe un passo verso la democrazia, così come è stata la sorta di amnistia concessa ai gruppi militanti del PKK, un enorme passo indietro sarebbe, invece, quello della sentenza contro il DTP.
Occorre sapere, infatti, che tale movimento rappresenta l’unico valido interlocutore in seno al parlamento per la negoziazione della questione curda. Il suo leader, Ahmet Türk, ha dichiarato che, qualora il suo partito venisse dichiarato fuorilegge, essi continueranno a lottare dal basso per i diritti del popolo curdo, una volta bloccati a livello istituzionale.
Ankara e il governo Erdogan non farebbero di certo una bella figura nei lustri dei salotti europei, deludendoci nonostante la buona condotta con l’Armenia, con la quale si starebbero riallacciando i primi rapporti commerciali, con la Siria, nuovo partner politico a seguito della pietra posta sopra Alessandretta, nonché con il Kurdistan, all’interno del quale, nonostante le accuse di sostegno alla guerriglia curda, è stata annunciata l’apertura di un consolato. Se i segni di distensione e di non sottomissione alla politica militare americana – in Turchia sono ancora presenti basi statunitensi ma non c’è stata nessuna prova di collaborazione nella guerra contro l’Iraq – si sposano volentieri con il progressivo laicismo nazionale come inaugurato da Ataturk, l’apogeo turco riprecipita verso il basso in vista di una tale probabile sentenza. Mentre gli europei, quindi, si accigliano per via della chiusura repentina di un canale di dialogo con l’unico esponente legale dei curdi, Erdogan si acciglia ancor di più, poiché, col via libera della sentenza, 14 membri del DTP sarebbero cacciati dal Parlamento e, sommandosi alle attuali vacanze, costringerebbero la nazione allo svolgimento di nuove elezioni.
La maggioranza, detenuta dallo stesso Erdogan, ha comunque in mano la situazione: dovrà dare il suo assenso alle dimissioni forzate dei parlamentari. La partita, quindi, è ancora aperta. Eppure, da Bruxelles si rimugina quotidianamente sull’opportunità dell’ingresso della Turchia in Europa, poiché, si vocifera, se tale decisione andasse in porto e il DTP fosse sciolto, non è escluso che Ankara e dintorni siano presi d’assalto da attacchi terroristici in segno di ritorsione.