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Al di là del Bene e del Male: Eluana vive.

Eluana è viva. Viva nel senso che finalmente può decidere, non può far sentire la sua voce, né comunicare con il corpo per spiegare le proprie ragioni, ma lo fa attraverso un’altra vita: quella del padre.
Se qualcosa infatti in questi tempi di sola scienza ancora conta, sono proprio i legami tra le persone, di sangue, tra padre e figlia.
Sono trascorsi diciassette anni da quel maledetto 18 gennaio del 1992, quando Eluana per un crudele destino che accomuna purtroppo migliaia di persone, è passata dalla gioia di vivere dei suoi vent’anni, ad una condizione di non morte e non vita. Un limbo per nulla paragonabile con l’immagine del Purgatorio trasmessaci dalla tradizione letteral-cristiana. Il suo corpo è infatti ancora terreno, tenuto in essere da un sondino meccanico che, come una catena, la tiene al guinzaglio: lì.
Ecco allora che in un momento tragico come questo, in cui la coscienza si sente smarrita di fronte ad un avvenimento che va “al di là del bene e del male”, ci viene in soccorso l’amore del padre nei confronti del figlio, la sua pietà, che se i “catto-benpensanti” non permettono di definire cristiana, certamente molto ha a che vedere con la pietas latina, intesa come quel sentimento di rispetto assoluto per la famiglia e per i propri componenti, come se quel nucleo fosse la metafora della conoscenza del tutto.
Non si può decidere per la vita d’altri, è vero, ma non si può nemmeno capire fino in fondo se certi drammi non si vivono sulla propria pelle. E quando anche Dio, a volte, sembra non aver scelto, affidarsi a chi quella vita l’ha generata e curata, pare davvero la decisione più naturale.

di Alessandro Bressan

Sulla vicenda di Eluana sono entrati in campo forze ideologiche, volte a scardinare il sottofondo valoriale della convivenza civile. Nella tragedia di Eluana hanno identificato uno strumento straordinario per fare breccia nel sistema di valori, patrimonio vitale di questa società. A quel punto tutto è saltato o è stato stravolto: la logica, il buon senso e la semantica. Lascia ad esempio stupefatti che il medico che dovrebbe accompagnare alla morte Eluana, a precisa domanda sulla sofferenza eventualmente procurata dalla sospensione di cibo e acqua, dica: «Nessuna sofferenza, perché Eluana è morta diciassette anni fa». Allora avevano ragione le Suore misericordine di Lecco, quando supplicavano il papà, che diceva la stessa cosa del medico, di essere conseguente, di lasciare loro questa sua figlia, che ormai – avendola loro da sempre accudita – consideravano di casa. Se Eluana è morta 17 anni fa perché accanirsi con tanta protervia per farla morire davvero? Se Eluana non soffrirà, perché disporre di sedarla?
Pensiamo al Friuli, terra martoriata anche da invasioni, guerre, miseria, emigrazione. Ma terra di vita. Tutti hanno potuto toccare con mano questa verità nella tragedia dei terremoti del 1976. Mille morti, moltissimi feriti, centinaia di migliaia di senza tetto, ma un popolo tenacemente aggrappato alla vita. Un popolo abbattuto ma non disperato, colpito a morte ma non rassegnato. E il Friuli è tornato a vivere e i friulani hanno saputo trasformare le loro lacrime in sudore di ricostruzione e rinascita. E i paesi sono risorti come per miracolo, dove e come prima del terremoto e anche più belli. Una sorta di miracolo collettivo. Dovuto a cosa? Alla straordinaria energia prodotta dalle sue radici umane e cristiane, dove il rispetto e la promozione della vita erano al primo posto. Un popolo, quello friulano, che aveva un alto senso della vita e dunque anche un’attenta e rispettosa valutazione della morte.
Si nasceva in casa e in casa si voleva morire, circondati dall’amore solidale dei propri cari. A nessuno veniva in mente di abbreviare il tragitto verso la morte. Quella era una “pietà” riservata agli animali. Per gli umani c’era un diuturno addestramento alla sofferenza propria e altrui e alla resistenza.
E dinanzi alle più grandi difficoltà si veniva educati (ma per fortuna accade ancora) non alla rassegnazione alla morte ma alla perseveranza nell’amore alla vita. Tutt’altro rispetto a questa marcia forzata verso la morte.

di Andrea Camaiora

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