Al via Cannes con la sedia vuota del regista Panahi, da tre mesi nella famigerata prigione “209”
Jafar Panahi si trovava al fianco di Neda Soltan durante le manifestazioni antiregime e poi accanto al suo feretro, con la madre in lacrime. Più di ogni altro cineasta iraniano, Panahi ha avuto il coraggio di filmare la dissidenza interna al regime di Teheran. Domani si apre il festival di Cannes, ma il regista non potrà esserci. Si trova in carcere a Evin da tre mesi.
Nella stessa ala della famigerata prigione dove la giornalista Zahra Kazemi è stata torturata a morte e dove i carcerati devono tenere sempre gli occhi bendati. La prigione è gestita dalla “Vevak”, la polizia segreta iraniana, e lì, fin dagli anni Ottanta, centinaia di prigionieri politici sono stati torturati e giustiziati.
In quella prigione sono entrati, e spesso mai usciti, numerosi dissidenti iraniani. La sorte di Panahi è avvolta nel mistero. Amici e familiari non hanno notizie sulle sue gravissime condizioni di salute;
l’avvocato e i parenti più stretti non hanno accesso al fascicolo aperto dalle autorità sul “regista dissidente”, così come nessun ufficiale giudiziario risponde alle domande sulle accuse.
Panahi resta segregato nella famigerata “Sezione numero 209”, una specie di “prigione nella prigione”, affidata alla discrezionalità dei servizi segreti. E’ composta da mini-celle individuali di un metro per due in cui ogni detenuto è isolato dal mondo.
Gli interrogatori, che a volte durano dieci ore di fila, sono violenti, con calci e pugni sui punti d’appoggio. Un neon è appeso al soffitto, inondando la “camera” ventiquattr’ore su ventiquattro. E’ la “tortura bianca”, che Amnesty International descrive così: “La cella non ha finestre, è completamente bianca, come gli abiti. Per cibo si riceve riso bianco. Le guardie non emettono rumore. E’ proibito parlare con chiunque”.
Panahi stava realizzando un film-documentario sull’ondata di proteste dopo la discussa rielezione del presidente Ahmadinejad. La moglie precisa che un dossier a suo carico è stato aperto fin da
quando il regista indossò un drappo verde, simbolo dell’Onda iraniana, al festival del cinema di Montreal.
Dopo la rielezione di Ahmadinejad, Panahi disse: “Diffonderà umiliazione e piegherà il popolo”.
Ce n’era abbastanza per farne un obiettivo della repressione poliziesca. Taherah, la moglie del regista, si dice molto preoccupata per le sue condizioni di salute nella cella d’isolamento, che ha
chiamato “piccola tomba” e che descrive così: “E’ pallido, magro e debole. Hanno usato ogni mezzo per distruggere il suo spirito, come può essere chiamata se non tortura?”.
Panahi soffre di gravi problemi di cuore e ha perso molto peso. Il regista in carcere è stato per due volte ricoverato in ospedale a seguito di attacchi e spasmi improvvisi. Intanto da Hollywood una schiera di registi ne chiede il rilascio.
Fra i firmatari di una petizione al governo iraniano ci sono Steven Spielberg, Martin Scorsese e
Francis Ford Coppola. La prolungata detenzione di Panahi potrebbe essere una vendetta del regime contro le numerose pellicole del noto regista.
Si inizia nel 1995 con “Il palloncino bianco”, si prosegue nel 1997 con “Lo specchio”, snervante
film manifesto e si finisce con “Il cerchio”, tragico girotondo realista tra le donne iraniane e le loro sciagure. “Un film disonorevole e degradante per le donne”, lo definì il quotidiano Kajan. “Solleva dubbi sul valore del chador”, aggiunse l’oltranzista Qods.
Vietato fumare per strada, vietato salire sull’autobus non accompagnate da un uomo, sarebbe meglio non partorire figlie femmine, così da non infastidire i mariti. Abito nero e velo obbligatori ovunque, raddoppiati se necessario dal chador: non un foulard, ma una palandrana da capo a piedi.
La commissione cinematografica di Teheran voleva che Jafar Panahi tagliasse due scene simbolo dal film: la retata alla festa, in cui si vede che le feste sono proibite in Iran, e quella in cui il protagonista fuma le sigarette “57”. Si chiamano così in onore dell’anno della rivoluzione (il Foglio).
Jafar Panahi si trovava al fianco di Neda Soltan durante le manifestazioni antiregime e poi accanto al suo feretro, con la madre in lacrime. Più di ogni altro cineasta iraniano, Panahi ha avuto il coraggio di filmare la dissidenza interna al regime di Teheran. Domani si apre il festival di Cannes, ma il regista non potrà esserci. Si trova in carcere a Evin da tre mesi.
Nella stessa ala della famigerata prigione dove la giornalista Zahra Kazemi è stata torturata a morte e dove i carcerati devono tenere sempre gli occhi bendati. La prigione è gestita dalla “Vevak”, la polizia segreta iraniana, e lì, fin dagli anni Ottanta, centinaia di prigionieri politici sono stati torturati e giustiziati.
In quella prigione sono entrati, e spesso mai usciti, numerosi dissidenti iraniani. La sorte di Panahi è avvolta nel mistero. Amici e familiari non hanno notizie sulle sue gravissime condizioni di salute;
l’avvocato e i parenti più stretti non hanno accesso al fascicolo aperto dalle autorità sul “regista dissidente”, così come nessun ufficiale giudiziario risponde alle domande sulle accuse.
Panahi resta segregato nella famigerata “Sezione numero 209”, una specie di “prigione nella prigione”, affidata alla discrezionalità dei servizi segreti. E’ composta da mini-celle individuali di un metro per due in cui ogni detenuto è isolato dal mondo.
Gli interrogatori, che a volte durano dieci ore di fila, sono violenti, con calci e pugni sui punti d’appoggio. Un neon è appeso al soffitto, inondando la “camera” ventiquattr’ore su ventiquattro. E’ la “tortura bianca”, che Amnesty International descrive così: “La cella non ha finestre, è completamente bianca, come gli abiti. Per cibo si riceve riso bianco. Le guardie non emettono rumore. E’ proibito parlare con chiunque”.
Panahi stava realizzando un film-documentario sull’ondata di proteste dopo la discussa rielezione del presidente Ahmadinejad. La moglie precisa che un dossier a suo carico è stato aperto fin da
quando il regista indossò un drappo verde, simbolo dell’Onda iraniana, al festival del cinema di Montreal.
Dopo la rielezione di Ahmadinejad, Panahi disse: “Diffonderà umiliazione e piegherà il popolo”.
Ce n’era abbastanza per farne un obiettivo della repressione poliziesca. Taherah, la moglie del regista, si dice molto preoccupata per le sue condizioni di salute nella cella d’isolamento, che ha
chiamato “piccola tomba” e che descrive così: “E’ pallido, magro e debole. Hanno usato ogni mezzo per distruggere il suo spirito, come può essere chiamata se non tortura?”.
Panahi soffre di gravi problemi di cuore e ha perso molto peso. Il regista in carcere è stato per due volte ricoverato in ospedale a seguito di attacchi e spasmi improvvisi. Intanto da Hollywood una schiera di registi ne chiede il rilascio.
Fra i firmatari di una petizione al governo iraniano ci sono Steven Spielberg, Martin Scorsese e
Francis Ford Coppola. La prolungata detenzione di Panahi potrebbe essere una vendetta del regime contro le numerose pellicole del noto regista.
Si inizia nel 1995 con “Il palloncino bianco”, si prosegue nel 1997 con “Lo specchio”, snervante
film manifesto e si finisce con “Il cerchio”, tragico girotondo realista tra le donne iraniane e le loro sciagure. “Un film disonorevole e degradante per le donne”, lo definì il quotidiano Kajan. “Solleva dubbi sul valore del chador”, aggiunse l’oltranzista Qods.
Vietato fumare per strada, vietato salire sull’autobus non accompagnate da un uomo, sarebbe meglio non partorire figlie femmine, così da non infastidire i mariti. Abito nero e velo obbligatori ovunque, raddoppiati se necessario dal chador: non un foulard, ma una palandrana da capo a piedi.
La commissione cinematografica di Teheran voleva che Jafar Panahi tagliasse due scene simbolo dal film: la retata alla festa, in cui si vede che le feste sono proibite in Iran, e quella in cui il protagonista fuma le sigarette “57”. Si chiamano così in onore dell’anno della rivoluzione (il Foglio).