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Tra intellettuali e popolo unica cultura

Pubblichiamo la lettera del senatore Sandro Bondi, Coordinatore nazionale del Pdl e ministro per i Beni e le Attività culturali, al Corriere della Sera di mercoledì 10 febbraio 2010.
Quando si affronta la questione delle radici culturali dell’Italia, il rischio è di ripetere concetti sui quali generalmente si registra un consenso quasi unanime oppure un radicale dissenso. In entrambi i casi, il dibattito sfocia nell’inconcludenza e nell’attuale sterilità della cultura.
Provo ad avanzare la seguente tesi. Se la nostra cultura – come io credo – è un principio di identità, se la nostra cultura è generatrice di significati universali, se la nostra cultura è tuttora un giacimento, uno scrigno di senso e di modelli per il futuro, perché allora essa appare sterile di dinamismo, di risultati, di creazioni, di nuove testimonianze?
Soprattutto, perché la nostra cultura appare incapace di indirizzare gli sforzi della comunità nazionale verso traguardi di unità, di sviluppo, di più elevata democrazia?
Anzi, perché generalmente, proprio la cultura e gli intellettuali sono diventati principio di divisione, di contraddizione? Al punto che, sia quando parliamo del Risorgimento che quando ci riferiamo al fascismo, o a periodi della nostra storia più recente, abbiamo una memoria divisa del nostro passato? Con il rischio di trasferire, anche in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, sul piano storico la rissa che contraddistingue il nostro presente politico.
Quali sono le ragioni di tutto questo? Anche qui sottopongo le seguenti riflessioni.
Innanzitutto, la considerazione che vi sono state nella storia grandi civiltà che si sono spente, cioè che non sono state capaci di perpetuare nel tempo la propria grandezza. Civiltà che non hanno saputo generare nuove fasi della propria potenza, come la deflagrazione di una stella.
In secondo luogo, oggi gli equilibri del potere, del potere economico, politico, culturale, si sono spostati dall’Europa all’Asia. Nuove potenze determinano cambiamenti epocali. Non possiamo più vivere di rendita. I centri culturali più vivaci non si trovano più solo nell’Occidente, ancor meno in Italia.
Una terza ragione, forse la più importante, riguarda proprio la cultura dell’Occidente, che, come ha ricordato Benedetto XVI, odia se stessa, una cultura dominata dal nichilismo. Carlo Sgorlon, un non conformista per riprendere un bel libro di Pierluigi Battista, ha scritto che la disperazione dominante in Occidente è una forma di conformismo di diffusa suggestione. La nostra è un’epoca malata, nella quale gli uomini non sanno più essere in sintonia con la vita, il mondo, l’essere. E continuamente insultano l’esistenza. La definiscono assurda, nauseante, alienata, precaria. Amano la letteratura del malessere e dell’ansia.
I mass media sono intrisi di questa cultura. Recentemente il cardinale Angelo Bagnasco ha puntato l’indice contro questo giornalismo del risentimento, sostenendo che i media non dovrebbero cadere nel sistematico disfattismo o nell’autolesionismo di maniera. L’Italia – ha ricordato l’alto porporato – dovrebbe essere più consapevole delle risorse e delle qualità di cui dispone. E dare una giusta considerazione ai successi conseguiti in molti campi. Tutto ciò, però, è molto difficile se la politica è impegnata nella denigrazione reciproca e i mass media nell’arte del disfattismo e dell’esaltazione del negativo. Alessandro Baricco ha giustamente ricordato che la televisione è il terreno sul quale si giocherà sempre più la partita della cultura e dell’identità nazionale. E su questo terreno non si vedono segni incoraggianti da parte di nessuno. Da dove riprendere quindi il filo interrotto della nostra cultura?
Innanzitutto dal rifiuto delle ideologie. In secondo luogo da un approccio alla realtà e al discorso pubblico secondo le virtù della pazienza, della prudenza, della scepsi, dell’accettazione dei limiti, del rifiuto del modo di ragionare per dicotomie e della tentazione del tutto o niente, che sembrano per noi italiani le cose più difficili da imparare. Infine, la promozione di una cultura democratica e popolare, che superi la tradizionale scissione tra intellettuali e popolo.

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