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Tendenze/ Con Starbucks il caffè diventa take away

Non ci speravamo quasi più. Ci siamo consolati per anni annoverandolo tra i motivi di gioia per le partenze nelle capitali dell’Europa occidentale, acquistando l’ennesimo gadget da portare a casa con noi (magari un termos da riempire in ufficio con un banalissimo Nescafè che ricreasse l’atmosfera), oppure convincendoci che è una pratica esterofila da relegare rigorosamente alla dimensione del viaggio perché noi, tanto, abbiamo il nostro insostituibile espresso. Invece, miracoli della globalizzazione, Starbucks potrebbe nel giro di mesi aprire due store in Italia: Milano prima (ovviamente, avevate dubbi?), Roma poi.
Howard Schultz, presidente e amministratore delegato della società, è sempre stato scettico sul successo della sua catena in Italia. Nonostante Starbucks sia nata a Seattle con l’idea di copiare il caffè italiano, è chiaro a tutti che dell’originale concept oggi è rimasto ben poco. È talmente difficile immaginarci affezionati allo stile “coffee take away”, che la foto di un passante che guarda vetrine o corre verso l’ufficio bevendo da una cup in plastica o cartone sappiamo già che non può avere come sfondo una strada italiana. È una questione di cultura, my God!
La stessa cultura che porta molti ultraliberisti a considerare la catena internazionale di caffetterie l’unico fallimento del mercato giustificabile e comprensibile nel nostro Paese. Non solo. Il più grande competitive advantage di Starbucks è la collocazione (vicino alla metro o ad altri luoghi centrali): perciò gli americani, pigri di natura, sono disposti a spendere il doppio per un caffè Starbucks. L’Italia, invece, è uno dei paesi con più alta concentrazione di bar e caffè, quindi il vantaggio competitivo è completamente annullato! Senza contare l’ossessione per il caffè corto, per il bancone, per la tazzina (ceramica o vetro?)…
Ma proviamo a guardare le cose in un’ottica diversa: l’ alternativa. Da Starbucks non c’è solamente il solito caffè, oppure le solite cioccolate, calde oppure i soliti cornetti e nemmeno le solite gomme da masticare… è tutto un altro modo di concepire la mitica pausa caffè! D’altronde se ormai da anni il fast food americano (Mc Donald’s in primis) riesce a convivere senza grossi problemi con il nostro slowfood, perché non può valere lo stesso principio? C’è un momento per l’espresso e un momento per il caffè americano! Anyway, qualora lo switch culturale non avvenisse, resta un punto fermo: un vero imprenditore anticipa i bisogni latenti del consumatore. Male che vada, Roma (come pure Milano) è piena di turisti americani!!! (da “Il Punto”).

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