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Storia di un partito mai nato

Il “sogno democratico” nacque verso la metà degli anni ’90. Quando Romano Prodi, estraneo a quei partiti che lentamente provavano a ricostruire la sinistra italiana, idealizzò una grande coalizione progressista in grado in tempi brevi di convergere in unico e ampio soggetto politico. A rallentare inizialmente il progetto furono proprio le sventure del Professore, messo all’angolo da Bertinotti e dal carisma di un acclamato D’Alema. Il ritorno di Romano a Palazzo Chigi e la sconfitta di misura del Cavaliere nel 2006 ridiedero vita al disegno, che però – manco a dirlo – venne alla luce nel momento e nel modo sbagliato. Perché l’investitura di Veltroni divenne un boomerang per il Premier in carica e per tutto il governo, delegittimati di fatto da una nuova dirigenza che entrava in naturale contraddizione con l’esecutivo.
Ma non bastano comunque questi “errori tecnici” a spiegare la debacle del Partito Democratico. L’avvenimento che più di tutti ha influito negativamente sullo sviluppo dell’idea PD risale proprio alle Primarie del 2007. La Margherita e i Ds non seppero mettersi in discussione e in pratica organizzarono un evento mediatico più che una vera e propria consultazione popolare, in grado di garantire una reale democrazia interna e una proposta politica pluralistica. Veltroni, seppur trionfatore con un risultato quasi plebiscitario, era già vincitore prima di scendere in campo, causa l’assenza di una competizione autentica, dura, persino scomoda. Ma capace di coinvolgere davvero gli elettori. Si è avuta sempre l’impressione di assistere a un gioco svolto a tavolino, a un Palazzo che si autodeterminava ed inevitabilmente a un partito che prendeva forma in maniera sin troppo orizzontale e quasi autoreferenziale. Oltre all’assenza del leader (altro grande tallone d’Achille), è mancata la spinta propulsiva della società civile. Lo scarso feeling con la base ha bloccato sul nascere il decollo del nuovo soggetto. Le dimissioni di Veltroni e il successivo insediamento a tempo di Franceschini hanno poi solo contribuito ad assopire le passioni dell’elettorato e a far entrare nel limbo delle ambiguità il Partito. Dopo aver toccato il fondo, dovrebbe inevitabilmente oggi partire una svolta. Che però all’orizzonte non si intravede affatto. La parola d’ordine resta l’alternanza ai berlusconimi e l’unico vero dibattito interno,  più che riguardare la costruzione identitaria, si alimenta sulla possibilità di riaprire all’ala estrema e quindi di fare un passo indietro. O al massimo continuare a coltivare una difficile e precaria autonomia che non è accompagnata da slanci concreti. 
I soliti nomi si contendono lo scettro, probabilmente il nuovo leader sarà frutto del classico compromesso che spegne sul nascere ogni velleità di rinascita. La vera notizia sarebbe assistere in autunno a una competizione elettorale che vede in prima linea – e contro – gente come Rutelli, Marini, Fassino, D’Alema, Franceschini, Bersani e magari altri nuovi emergenti. Primarie vere. Ma sanno tutti che non accadrà.

 

 

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