Archivio Attualità

Se vige il «pregiudizio di colpevolezza»

Con gli emendamenti al decreto governativo sulle intercettazioni, noi giornalisti, pubblicandole, vediamo tutelato il nostro diritto a informare e i lettori vedono il loro a essere informati. È quello che fa scrivere anche a noi che è una buona cosa.
Ma l’Etica dei principi deve sempre essere associata all’Etica della responsabilità, che vuole, poi, dire fare i conti con la Realtà. Se gli esiti, per aver seguito i principi, non sono ancora soddisfacenti o sono addirittura peggiori di quanto sarebbero stati disattendendoli, forse, è lecito porsi qualche domanda, anche se contraria a convinzioni consolidate e, soprattutto, tranquillizzanti.
Dunque. Con la pubblicazione delle intercettazioni, che cosa sapranno i lettori? Conosceranno gli elementi raccolti dalla magistratura per formulare il suo atto di accusa. Poco o nulla sapranno degli argomenti della difesa, perché i giornali non li pubblicheranno o, quanto meno, non ne parleranno con la stessa enfasi.
Ma, in uno Stato di diritto e in un Paese civile, anche — oso dire soprattutto — l’inquisito deve essere tutelato. Con i tempi lunghi della nostra Giustizia e, diciamolo onestamente, con le abitudini dei media, se l’inquisito era innocente non lo si saprà neppure dopo il dibattimento e la sentenza.
Ciò che rimarrà nella testa delle gente sarà l’accusa anche perché alla eventuale assoluzione, a differenza di quanto sarebbe per la di condanna, i media daranno poco spazio. Sono molti quelli che sanno, si sono indignati, hanno reagito e ne hanno chiesto conto alla magistratura e al ministro della Giustizia, alla «notiziola» — rispetto alle precedenti accuse date con grande evidenza all’epoca — che Formica e Lattanzio sono stati riconosciuti innocenti dopo diciassette anni?
Mi rendo conto che il mio modo di pensare ha poca cittadinanza nel nostro Paese. Siamo tutti contenti, credendo di aver affermato un paio di principi democratici — il diritto all’informazione e a essere informati — e tanto ci basta, anche se il risultato è assai poco liberale.
Fra il diritto all’informazione e quello alla tutela della dignità della Persona (erroneamente chiamata «privatezza») privilegiamo il primo, senza chiederci «quale informazione», e che ne sia del secondo. La nostra cultura assegna pregiudizialmente allo Stato un primato sull’Individuo.
Così, anche in sede processuale, l’accusa — lo può testimoniare ogni avvocato penalista — per il solo fatto d’essere formulata da un potere dello Stato, gode di fatto (ancorché non in diritto) di una condizione di privilegio sulla difesa e, a livello di opinione pubblica, è credibile, e persino giusta, per definizione.
Il «pregiudizio di colpevolezza» — invece di quello liberale di innocenza — è un riflesso della nostra vocazione totalitaria per lo Stato etico (fascista, comunista, teocratico che sia). In nome della Collettività —che è poi l’astrazione ideologica cui fa capo, in concreto, il potere di politici, pubblici amministratori, magistrati e che, per dirla con Marx, è espressione della cultura dominante — ci compiacciamo quando «è fatta giustizia», non quando «si afferma la Giustizia».
La carcerazione preventiva, che si protrae spesso ben oltre i limiti della decenza, lascia indifferenti la politica, i media, i magistrati e la stessa opinione pubblica. Chi se ne frega, almeno fino a quando non finiamo noi stessi nei guai. Affari «loro». Invece, sono affari nostri.
So bene che la «certezza del Diritto» è un’utopia, qualora la si intenda in termini assoluti. La Giustizia, come ogni manifestazione umana, è esposta all’errore; persino una sentenza di Tribunale non è «la Verità assoluta», ma solo «la verità processuale» che scaturisce da un dibattimento fra uomini fallibili.
Mi limito, perciò, a formulare qualche interrogativo sulla base di un paio di principi che mi sono cari. Diffidare sempre del Potere, quale ne sia la natura, politica, sociale, economica, ideologica. Chiedersi costantemente in che Paese viviamo.
Ma, vuoi per lassismo, vuoi per cinismo o, semplicemente, per lasciti ideologici recenti, molti italiani preferiscono non chiederselo, mettersi nelle mani del Leviatano di turno, riducendosi a sudditi, invece di riconoscersi nei diritti dell’Uomo della Dichiarazione universale del 1789 e dei testi successivi dell’Onu, dell’Europa che, peraltro, non ci si preoccupa neppure di far conoscere.
So anche di farmi qualche illusione. Il Potere si guarderà dal replicare. Ma, col sostegno dei lettori che mi seguono, io continuo (Corriere della Sera).

 

Riguardo l'autore

vocealta