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Per gli arabi la felicità è anche nelle soap opere

Il 25% dei bambini nati in Qatar sono chiamati con i nomi dei personaggi delle soap opere turche. Lo rivela il quotidiano arabo Gulf Times citando le fonti del Ministero della Salute. I dati si riferiscono al 2008. Nomi tradizionali come Fahad, Fitais and Smaikh stanno lasciando spazio a quelli delle protagoniste delle soap come Rahaf, Mohanad, Lamis. Rahaf (gentilezza in arabo) per esempio, è stato scelto per 60 bambine, mentre il nome Lamis, (che in arabo significa soft) è stato dato a 84. Questi sono i nomi delle protagoniste della soap turca Sanawat Al Dayaa (Gli anni persi), una serie televisiva sugli amori giovanili molto famosa e controversa nel mondo arabo. Scegliere un nome dai personaggi moderni di una fiction turca non è solo un termometro per misurare l’incidenza dei media sul comportamento dei giovani, ma anche un parametro per valutare la valenza della cultura pop mass mediatica su qui processi che innescano cambiamenti culturali e sociali in grado di mettere in crisi il rapporto tra il rispetto del sacro con l’appeal del profano, e quelli tra le aspirazioni personali dei giovani con le aspettative della società le cui prassi tradizionali sono molto care al mondo arabo. Il contenuto e il linguaggio dei media non solo mettono in crisi la linea invisibile che separa il sacro dal profano, ma sta affermandosi e imponendosi anche nei territori della tradizione identitaria e familiare araba. Tradizione vuole che per la stragrande maggioranza dei casi, i figli vengano chiamati con il nome dei nonni. In altri casi i nomi si riferiscono ai luoghi o hanno delle attinenze con degli eventi. Sono molti i nomi che si riferiscono ad aggettivi (Said Felice, Amin Fedele, Jameela Meravigliosa, Aziz Potente) e a personaggi biblici e coranici come Ibrahim, Abraham, Solomon, Yousef, Daoud. In passato andava forte anche il trend dei nomi dei leader politici. Dopo la morte del presidente egiziano Jamal Abu Nasser, sia Jamal che Nasser divennero nomi diffusi e gettonati.
Se l’influenza di Sanawat Al Dayaaè stata più che altro “nominale”, un effetto dirompente sui giovani l’ha avuta un un’altra soap, anch’essa turca: Noor. Mandata in onda nel mondo arabo nel 2007-2008 doppiata in siriano, Noor vanta dei connotati comunicativi e simbolici che probabilmente neppure i produttori avevano intuito. Noor, ( in arabo significa luce) la protagonista della soap, è una donna in carriera sposata a Muhannad. Il loro, è il classico matrimonio combinato che però ha prodotto degli effetti che non rispecchiano i parametri islamici corretti della tradizione.
Noor e Muhannad bevono vino, si baciano in pubblico, e pur osservando il Ramadan non pregano mai. Non appaiono mai donne che indossano il velo, e Noor riesce a bilanciare la sua carriera di fashion designer con la vita matrimoniale. Anzi, è proprio il marito ad incoraggiare le ambizioni professionali di Noor. L’episodio finale è stato seguito da 85 milioni di persone. Secondo il resoconto del quotidiano del Qatar, The Peninsula, una parte dell’audience femminile araba appassionata di Noor ha incominciato a richiedere ai propri mariti di essere trattate come Muhannad fa con Noor, cioè con rispetto, dignità e soprattutto parità. “La Noormania”, sempre secondo The Peninsula, «ha convinto delle casalinghe arabe a diventare imprenditrici e di trovarsi un lavoro per essere indipendenti». Tv e siti arabi hanno anche riportato i casi di alcuni mariti sauditi e siriani che hanno divorziato dalle loro mogli colpevoli di emulare la protagonista della soap.
I media occidentali si sono occupati del fenomeno Noor per le fatwe che alcuni leader religiosi sauditi hanno rivolto ai produttori dello show, a loro dire immorale e peccaminoso, e ai direttori delle reti arabe che trasmettevano la serie. Un giudice sauidita , Sheikh Saleh al-Luhaidan, ha persino emesso una condanna di morte non ufficiale a chi ha deciso di mandare in onda Noor. L’importanza di soap come Noor va ben oltre la reazione dei conservatori e la normalizzazione del profano. In Noor e in Sanawat Al Dayaa c’è un qualcosa di non ovvio, di silenzioso ma che allo stesso tempo è in grado di rappresentare qualcosa nell’inconscio delle persone. Per molte coppie di giovani arabi la loro ossessione con questo show comunica, probabilmente in modo anche involontario, un pessimismo cosmico nei confronti del futuro. La vita è talmente dura oggi al punto tale da mettere in preventivo che lo sarà anche più negli anni a venire, e soprattutto, si aspettano che lo sarà anche per i loro discendenti. Nel chiamare i figli con i nomi dei paladini delle saop è come se inconsciamente ci fosse la consapevolezza che solo come personaggi di una fiction i loro figli realizzeranno i loro sogni. La felicità esisterebbe esclusivamente nella fiction, così come si può provare il sentimento dell’ innamoramento solo ascoltando le canzoni arabe, la cui maggioranza esalta l’amore quasi per darne un idea o un assaggio a chi non l’ha ancora provato e non lo proverà mai perché “vittima” di un matrimonio combinato.
All’inizio la soap Noor è stato un flop. La serie ha avuto successo quando nel mondo arabo è stata trasmessa con un doppiaggio in dialetto siriano. Prima di allora era stata mandata in onda in turco con i sottotitoli in arabo. Questo dimostra che spesso non è il messaggio ma il codice di comunicazione con cui si comunica il messaggio ad aver più influenza sulle dinamiche di cambiamento e di comportamento. La cultura araba è dopotutto una cultura fondata sulla tradizione orale. Sono la lingua e il linguaggio che fanno breccia nei cuori e nelle menti degli arabi. La ricchezza e l’eloquenza della lingua araba hanno il potere di enfatizzare i messaggi e provocare forti sensazioni e reazioni nelle persone. Sacri o profani che siano. (da il Sole24Ore)

 

 

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