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No free press no democracy. La sindrome del quarterback arabo colpisce anche gli Emirati.

TwoFour54 è la nuova tax-free media production facility in costruzione ad Abu Dhabi. Il nome si riferisce alla posizione di Abu Dhabi sulle mappe: 24 gradi nord dell’equatore e 54 gradi est. La nuova struttura, operativa da questa primavera, è un conglomerato di 200.000 metri quadrati dove news organization, film production company, case editrici e grossi gruppi pubblicitari disporranno di equipment, spazio, infrastrutture, agevolazioni finanziarie e competenze per diventare un centro di eccellenza per la produzione di contenuti mediatici e diffusione di news. Questo nuovo polo mediatico farà concorrenza a Dubai Media City, la prima media free zone situata a Dubai che, oltre ai media arabi, ospita anche Reuters, AP, Agence France Press, Bloomberg, Dow Jones Newswires, Cnn e Bcc. Twofour54, che si è già assicurata come clienti il Financial Times, Harper Collins, Sky Pictures e National Geographic Films, secondo le parole del suo CEO, Tony Orsten «ambisce a diventare entro il 2030 un campus dove tutti i tipi di media company possono lavorare insieme e rappresenterà un nuovo hub mediatico e culturale. Per aver successo internazionale però, è opportuno che questo hub mantenga la sua essenza locale». In altre parole, se un gruppo mediatico vuole operare negli Emirati potrà parlare il linguaggio della tecnologia e del business globale, ma dovrà stare attento a quello che fa e dice a livello locale. Non a caso, proprio a fine anno, il Federal National Council degli Emirati Uniti, ( una sorta di parlamento collettivo tra i vari Emiri) ha approvato un nuovo disegno di legge sulla la libertà di stampa e di informazione che è in netta sintonia, usando le parole di Tony Orsen, con l’essenza locale araba. In base alla nuova legge, che aspetta solo la firma Khalifa bin Zayed, presidente degli Emirati, chi critica la famiglia reale, chi pubblica o chi diffonde informazioni che possono danneggiare l’economia, pagherà multe che arrivano fino a un milione e trecentosessantamila dollari. La vecchia legge invece, per i reati sopra citati, prevedeva il carcere. Un passo in vanti si è fatto, ma contemporaneamente, se si mettono in prospettiva gli investimenti nei media e l’aspirazione a diventare un paese modello, gli Emirati hanno fatto due passi indietro. Dopo tutto, anche loro, nonostante la creatività, la voglia di primeggiare nel mondo arabo, la capacità di competere con l’occidente, la quantità di talenti che possono diventare eccellenze, soffrono della sindrome del quarterback arabo, ovvero di quel giocatore che fa avanzare la squadra con dei bei passaggi, ma alla fine non manda in meta i suoi compagni. La squadra è come se fosse condotta da un quarterback che fa più passi indietro rispetto a quelli che dovrebbe fare in avanti, che fa un giusto lancio in una direzione, per esempio abolisce il carcere per i giornalisti o investe in futuristiche media center ma contemporaneamente fa 10 passaggi indietro varando leggi che li imbavaglia colpendoli sul portafoglio. Un altro paese vittima della sindrome del quarterback arabo è l’Egitto. Un giorno il governo egiziano inasprisce la pena contro le mutilazioni femminili, ma il giorno dopo arresta il riformista liberale di turno o costringe gli intellettuali a divorziare dalla moglie perché le loro idee innovatrici sono considerate apostate. E poi, a protezione del quarterback, c’è una linea di difesa composta dai cosiddetti custodi della tradizione che, usando le parole dell’ex viceministro della cultura egiziano Cherif Choubachy nel libro La Sciabola e la Virgola, «prendono a pretesto la specificità dei costumi arabi per contestare l’emancipazione della donna e reprimere la libertà d’opinione, idee che, a loro parere, porterebbero alla lussuria e all’anarchia in quanto contrarie ai precetti religiosi».

Articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore  

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