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L’ultimo trasformista

Allora vi potete immaginare come si è sentito Carlo Giuffré ieri all’ora di pranzo quando ha annunciato: mio fratello Aldo è morto. Insieme avevano debuttato nella compagnia di Eduardo De Filippo, teatro superlativo, anno di grazia 1942. Trent’anni dopo, al Teatro delle Arti di Roma, portarono in scena Un coperto in più (scritto da Maurizio Costanzo) e la critica li battezzò come i «nuovi De Filippo». Poi si divisero, litigarono, fecero la pace com’è costume di tutti i caratteri forti e fortemente individualisti. Uno, Carlo, più votato all’austerità recitativa, imponente e impeccabile, che ancora oggi, a 82 anni porta in giro sui palchi (appena visto al Carcano di Milano in I casi sono due, che un tempo recitò anche con Aldo). L’altro venato da quella comicità grottesca e famelica che riuscì a piegare persino al dramma, e quanto egregiamente. Per di più si somigliavano molto, lo stesso volto di bei napoletani veraci, e identica eleganza.
Perciò ieri, demolito, Carlo ha detto: «Ho perso più di un fratello, è morta l’altra mia metà in palcoscenico. Lo chiamavo nella camera mortuaria ma lui non mi rispondeva più: aveva ancora tutti i capelli neri, non una ruga e quel suo bel faccione». Dopo gli esordi a teatro, Aldo passò alla radio e fu proprio lui, con quella voce che conservava sempre un filo ironico, ad annunciare dai microfoni di via Asiago il 25 aprile la fine della seconda guerra mondiale. Da allora marciò spedito al cinema (Mario Mattoli lo fece debuttare nel ’48 in Assunta Spina e poi, da Tototarzan in avanti, lo volle in parecchi film di Totò) ma non solo lì: anche tanto teatro e, poi, tantissima televisione. E ovunque andasse, sia che fosse un set oppure uno studio tv, Aldo Giuffré portava quella composta irruenza che si impara a controllare solo sulle assi di un palcoscenico, a pochi metri dal pubblico attento e crudele.
«Lui non si occupava di regia, sembrava un po’ disattento ma poi era bravissimo» ha detto ieri Carlo. Via via che correva la carriera, il più trasformista dei grandi attori saliva in cartellone e sulle locandine. Steno e Monicelli lo chiamarono prima senza accreditarlo in Vita da cani, e poi, accreditandolo ben bene, anche in Guardie e ladri del 1951. De Sica lo volle come caratterista in Ieri, oggi, domani e Sergio Leone lo inseguì per dargli il ruolo del Capitano Nordista in Il buono, il brutto, il cattivo, nel quale il suo ghigno sardonico rimane davvero un’istantanea indimenticabile. «Aveva una straordinaria capacità istrionica, una grande simpatia e comicità» conferma Carlo, che ha lavorato con lui, nella compagnia che fondarono insieme, per dodici anni prima di mandarsi al diavolo. «La morte porta via tutto, ma da tempo avevamo fatto pace e ci vedevamo regolarmente anche se eravamo ancora molto impegnati». Qualche giorno fa Aldo si era sentito male, aveva un forte dolore all’addome. «Si è scoperto che aveva una peritonite e, dopo l’operazione, i punti non tenevano: i medici lo hanno nuovamente curato ma il cuore non reggeva più e dopo 48 ore si è spento serenamente». Se ne va un maestro del teatro, uno degli ultimi ad aver sublimato la commedia dell’arte evitando di santificare se stesso. «Eravamo gli unici – dice ora suo fratello – a fare teatro italiano perché da quando nacque il melodramma non abbiamo più avuto teatro di prosa e autori teatrali. Dopo Goldoni si sono attesi due secoli prima di Pirandello. E poi altri cinquant’anni per De Filippo». Persino Federico Fellini, quando li vide in Un coperto in più, disse che ricordavano i De Filippo e che il loro era un «teatro ad alta temperatura». A dire il vero, Aldo Giuffré, che negli anni Ottanta fu anche sfiancato da un intervento alla gola che ne modificò la voce rotonda, svariò molto di più del fratello, forse spinto da una voracità interpretativa che lo portò persino alle commedie sexy dove, giocoforza, divenne uno dei volti che identificavano il genere. In realtà, questo napoletano che era pure a proprio agio nella prosa spesso stereotipata degli sceneggiati tv (ad esempio La figlia del capitano del 1965), aveva la scioltezza interpretativa e il gusto della sfida che fanno di un semplice attore un protagonista assoluto che non si riesce a catalogare neanche volendo (il Giornale).

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