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L’impresa di Avati: sfugge alla farsa e alla banalità

Che tempismo Pupi Avati. Il suo ultimo film esce nella sale proprio quando nel paese l’attenzione mediatica è tutta concentrata sui vari furbetti del quartierino, sulla presunta decadenza morale della società e sul dilagare della corruzione.  Mentre “Il figlio più piccolo” intrattiene nei cinema gli spettatori, fuori si discute ancora e tanto su nuove clamorose inchieste e su intercettazioni che invadono giornali e tv e fanno gridare allo scandalo.
Ma niente paura: il noto regista bolognese ce la racconta in un modo completamente diverso. Che a qualcuno potrebbe non piacere. Perché Luciano (Christian De Sica) è un imprenditore senza scrupoli, imbroglione e disonesto. Ma è anche un ingenuo sognatore, ingannato dai suoi stessi collaboratori e vittima di un sistema più grande di lui. Quindi col passare dei minuti comincia a farci tenerezza, a tratti addirittura compassione. Appare quasi come un Don Chisciotte che ha scelto di puntare tutto su ideali sbagliati. Un “poveraccio” all’italiana raccontato con ironia, ma anche con dolcezza e poesia. La mano di Avati, troppo delicata per una spietata e ideologizzata critica sociale, accarezza le vicende assurde e realistiche che coinvolgono Baietti e suo figlio Baldo, senza eccedere mai. Lascia spalancata al pubblico la porta delle interpretazioni e dei significati e si preoccupa solo di costruire una storia al limite della credibilità e al contempo a forte rischio di strumentalizzazione. Pronto a non cadere nelle due facili e opposte trappole: da una parte quella del moralismo e dell’altra quella della mera dissacrazione. E per fortuna ci riesce, rimanendo sapientemente in bilico e sfuggendo così all’etichetta.
La coincidenza con l’attualità non riesce quindi a snaturare la sua forma e la sua sostanza. Il figlio più piccolo è una semplice e piacevole commedia della vita e degli uomini. Di personaggi difficili da inquadrare in un istante: danno tutti il meglio e il peggio di sé. Avati li mette alla berlina e subito dopo li riabilita, mescola le carte e ci risparmia il suo giudizio.
La politica, l’azienda, la famiglia, l’Italia sono istituzioni che a questo punto fanno solo da sfondo. Servono a dare un senso ai protagonisti. E passano presto in secondo piano, surclassate dai suggestivi primi piani di piccoli grandi esseri umani. Cinema minimalista? Forse. Ma pure libero dalle catene della retorica e da insopportabili pretese pedagogiche.
Post scriptum dedicato a De Sica: non è poi tanto diverso il suo Luciano dagli innumerevoli cialtroni interpretati nei cinepanettoni. Ma ci piace. Quindi forza e coraggio: c’è ancora tempo per cambiare definitivamente genere e recuperare gli anni perduti.

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