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Lettere di Gramsci ai figli

La Fondazione Camera dei Deputati ha realizzato un pamphlet pressoché sconosciuto in occasione del settantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci (1937). Si tratta di una raccolta di tesi particolarmente interessanti: contiene 42 lettere che Gramsci scrive ai figli, Delio e Giuliano, nell’arco di otto anni (1929-1937), lettere molto emozionanti, che aiutano a comprendere meglio gli ultimi e difficilissimi anni di Gramsci.

 Le lettere ai figli scritti da Gramsci durante il periodo di detenzione, unitamente alla recente ricerca di Giancarlo Lehner – La famiglia Gramsci in Russia, ed. Mondadori – completano il quadro umano e psicologico del più grande intellettuale nella storia del comunismo italiano.

La lettura della pubblicazione della Fondazione Camera (http://fondazione.camera.it/Files/Pubblicazioni/testogramsci.pdf ) è particolarmente toccante. Al rigore dell’intellettuale si somma il tratto del padre attento, sollecito nella formazione culturale e civile dei figli. La tenerezza delle parole di Gramsci scuote il cuore. Scrive nel ‘29: ‹‹Caro Delio, ho saputo che vai a scuola, che sei alto ben 1 metro e 8 centimetri e che pesi 18 chili. Così penso che tu sei già molto grande e che tra poco tempo mi scriverai delle lettere. In attesa di ciò, puoi già oggi fare scrivere alla mamma, sotto la tua dettatura, delle lettere, come facevi già scrivere a me, a Roma, i pimpò per la nonna. Così mi dirai se a scuola ti piacciono gli altri bambini e cosa impari e come ti piace giocare. So che costruisci aeroplani e treni e partecipi attivamente all’industrializzazione del paese, ma poi questi aeroplani volano davvero e questi treni corrono? Se ci fossi io, almeno metterei la sigaretta nella ciminiera, in modo che si vedesse un po’ di fumo! Poi mi devi scrivere qualcosa di Giuliano. Che te ne pare? Ti aiuta nei tuoi lavori? E’ anch’egli un costruttore, o è un po’ troppo piccolo per meritarsi questa qualifica? Insomma io voglio sapere un mucchio di cose e poiché tu sei così grande e, mi hanno detto, anche un po’ chiacchierino, così sono sicuro che mi scriverai (…). E io ti darò notizie di una rosa che ho piantato e di una lucertola che voglio educare (…)››. Infine la postilla: ‹‹Ho pensato che tu forse non conosci le lucertole: si tratta di una specie di coccodrilli che rimangono sempre piccini››.
Ma Gramsci resta – anche quando scrive ai figli – un pensatore esigente, una personalità capace di incidere profondamente nella cultura generale del Paese. Eccolo rispondere nel 1936, un anno prima di morire, all’altro figlio, il piccolo Julik, che non riuscì mai a vedere di persona il padre: ‹‹Caro Julik, sono contento che stai bene e che studi bene, ma le tue lettere sono troppo brevi (…). Hai visto al cine i “Figli del Capitano Grant”, ma non mi scrivi se il film ti è piaciuto e perché. Io ho letto il libro quando ero un ragazzo come te e mi è piaciuto molto. (…) il dottor Paganel con le sue distrazioni mi faceva ridere clamorosamente da solo, tanto che venivano a vedere se ero diventato matto. Non mi piaceva solo lo sciovinismo antinglese del Verne (che forse non appare nel film che tu hai visto) e la caricatura dei libri di geografia inglesi. Quando ero ragazzo gli inglesi mi attraevano molto perché erano grandi marinai e avevano tante isole dove avrei voluto abitare››.
Sulla vita del fondatore dell’Unità sono state inventate menzogne su menzogne, non da parte dell’odiato regime fascista, ma proprio dai compagni di Gramsci, Togliatti in testa.
Come ha documentato Lehner nel suo libro, fu Togliatti – con una clamorosa campagna di denuncia internazionale – a far saltare la trattativa segreta che puntava a scambiare l’autore dei Quaderni dal carcere con una spia fascista detenuta in Urss. Al contempo, una volta assicurato che Gramsci restasse in carcere il più a lungo possibile, si sconsigliava vivamente alla famiglia di andare in Italia con la scusa di possibili attentati o soprusi.
Certo, per Togliatti non deve essere stato difficile separare il compagno Gramsci dai figli e dalla moglie. In fondo lui aveva saputo fare peggio: basti pensare alla tragica storia del figlio Aldo e della moglie, Rita Montagnana. Ha scritto recentemente in un articolo sempre Giancarlo Lehner: ‹‹Quando ha appena 10 anni, i genitori, che da tempo vivono in Urss, lo depositano nell’Istituto di Ivanovo, una sorta di laboratorio per forgiare l’homo novus staliniano, avendo come cavie i figli della nomenklatura. Aldo è un bambino intelligente, dolce, delicato, sensibile, introverso. Avrebbe bisogno del calore della famiglia e, invece, si ritrova in mezzo a compagni aggressivi e violenti. C’è, ad esempio, il figlio di Tito, bullo nato che s’impone a furia di sberle, mentre altri non sono da meno con chi appare inerme. Vinca Berti, sua compagna di collegio, ricorda Aldo sempre in balla dell’altrui fisicità, fragile fanciullo in mezzo a birbanti ferrigni. Un giorno, Palmiro e Rita lo vanno a trovare e gli promettono di ritornare dopo due settimane. Passeranno anni e Aldino, orfano di fatto, non è per nulla compensato dall’essere ‘figlio del partito’. Scrive lettere disperate in francese a mamma e papà. Tutto inutile e la sua sofferenza emotiva diviene psichica. Alla zia Elena Montagnana continua a chiedere con insistenza patologica: “Perché mamma non torna, dov’è papà?”››. In seguito Togliatti non si curò mai più del figlio e abbandonò la moglie per avere – come è noto – una relazione con Nilde Jotti. Anche per Aldo e sua madre sarà per molto tempo impossibile il rientro in Italia.
Il comunismo – come provano le vicende dei figli di Gramsci e del figlio di Togliatti – ha intenzionalmente distrutto la famiglia; la prole non appartiene, dunque, ai genitori, bensì allo Stato. L’effetto devastante è che i figli sono stimati zavorra.
Ci furono eccezioni, naturalmente, tra i dirigenti comunisti. Non tutti furono così bestie da immolare i figli a Stalin e, certo, come provano le sue lettere, Gramsci avrebbe voluto restare vicino ai suoi amati Julik e Delka (Da Il Predellino).

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