Il senso di meraviglia, un profondo stupore: queste le parole chiave dell’ultimo saggio di Richard Holmes, The Age of Wonder (Harper Press paperback, 2008), che indaga, come spiega il sottotitolo, il modo in cui il Romanticismo scoprì la bellezza e il terrore della scienza (anche se, in realtà, il saggio va un po’ oltre). Per solito, siamo usi credere che il Romanticismo come movimento culturale sia stato ostile alla scienza. Pensiamo vi sia una sostanziale incompatibilità tra i due ambiti, non fosse altro che per gli opposti caratteri dominanti, la soggettività dell’uno e l’oggettività dell’altra. Forse, però, le cose non stanno proprio così. O almeno questo tenta di dimostrare l’autore del saggio, che trova appunto nel concetto di wonder l’atteggiamento che accomunò i due movimenti.
Occupandosi specificatamente del caso inglese, Holmes analizza i 60 anni tra il 1770 e il 1830, l’Age of Wonder appunto, che fu da un lato l’età romantica (aperta da poeti come Blake, Wordsworth e Coleridge e chiusa da Shelley, Keats e Byron), e dall’altro la seconda rivoluzione scientifica, come la definì, non a caso per primo, proprio il poeta Coleridge nelle sue Philosophical Lectures del 1819.
La tesi di Richard Holmes è che l’interrelazione tra scienza e romanticismo prodottasi in questo fortunato periodo, ha determinato il modo in cui ancora oggi guardiamo alla scienza. Non è solo l’entusiasmo con cui noi profani accogliamo le scoperte, ma è anche il modo prepotente in cui la scienza è entrata nel nostro immaginario collettivo. Per segnarci così fortemente, sarebbero dunque bastati i pochi anni tra il giro del mondo del capitano James Cook (iniziato sull’Endeavour nel 1768) e il viaggio alle Galapagos di Charles Darwin (a bordo del Beagle nel 1831). L’eredità giuntaci sarebbe individuabile in punti precisi. Innanzitutto, nella creazione del mito del genio scientifico solitario, instancabile, assetato di conoscenza e da essa esclusivamente motivato. In secondo luogo, nell’idea che esista un momento “Eureka”, un istante preciso in cui la scoperta si palesa e si materializza al suo scopritore, lungo un processo di rivelazione cui l’uomo partecipa attivamente. Infine, nel mito di una scienza pura, disinteressata e indipendente dalla politica e dalla religione. Secondo Holmes, rispetto alla prima rivoluzione scientifica – associata ai nomi di Newton, Hooke e Cartesio, e simultanea alla nascita della Royal Society a Londra e della Accademia delle Scienze di Parigi – che diffondeva, in latino, un sapere privato, elitista e specialistico, dal 1770 la scienza diventa popolare: rivolta al grande pubblico, iniziano le lezioni aperte a tutti, vengono redatti manuali scientifici (spesso scritti da donne), mentre la scienza diventa una materia insegnata già ai bambini. Per Holmes, inoltre, l’Age of Wonder è importante giacché si è trattato dell’età in cui cessò il monopolio della Royal Society: al suo posto, nacquero nuove e numerose istituzioni scientifiche.
Nonostante egli sia per formazione e interessi più vicino ai poeti, la vicenda ricostruita nel saggio viene ripercorsa da Holmes (fellow della British Academy, docente fino al 2007 di Biographical Studies alla Università dell’East Anglia, nonché biografo, tra gli altri, di Coleridge e Shelley) muovendo dall’ottica degli scienziati, più che dei poeti. Leggendo le vicende del botanico Joseph Banks, del chimico Humphry Davy e del collega Michael Faraday, dell’astronomo William Herschel, dei medici Erasmus Darwin e William Lawrence, degli esploratori James Cook e Mungo Park, scopriamo che questi scienziati erano romantici come i poeti, che le loro scoperte erano sorprendenti come le poesie, che in molti di loro l’interesse per la poesia era profondo, quasi strutturante. Contestualmente, del resto, era fortemente radicato in molti poeti l’interesse per la scienza.
Di certo il libro è efficace nel rendere la dinamicità della scienza. La scienza continuamente riscrive e riassesta la propria storia retrospettivamente: facendo storia della scienza, più che in altri ambiti, sconfitte e vittorie sono intimamente legate. In questo senso, va salutata positivamente la sempre maggior diffusione dello studio della storia e della filosofia della scienza (i primi dipartimenti furono introdotti nelle università di Cambridge e di Berkeley).
Si tratta dunque di un saggio importante – oltre che di piacevole lettura, anche per i numerosissimi aneddoti – perché la storia della scienza va fatta. Differiamo però con Holmes su alcune considerazioni finali. Mentre infatti egli avverte una linea rossa senza soluzione di continuità tra l’Age of Wonder e l’oggi, forse, invece, una certa frattura parrebbe essersi prodotta. Se noi spettatori contemporanei siamo, per lo più, ancora figli di quella meraviglia sono forse gli scienziati a essere cambiati. Lo spessore e la complessità che innervava le figure descritte da Holmes – spessore e complessità che ne allargavano ottiche e visioni dando un respiro effettivamente ampio ai loro interessi – non sempre è riscontrabile oggi. Si dirà che forse è la scienza nel suo complesso a essere cambiata. Già, il punto sta nel capire se tali mutamenti abbiano finito o meno con il trasformarne, nell’essenza profonda, il senso. Il rischio può infatti essere che da spettatori meravigliati si diventi, a volte, spettatori attoniti.
Occupandosi specificatamente del caso inglese, Holmes analizza i 60 anni tra il 1770 e il 1830, l’Age of Wonder appunto, che fu da un lato l’età romantica (aperta da poeti come Blake, Wordsworth e Coleridge e chiusa da Shelley, Keats e Byron), e dall’altro la seconda rivoluzione scientifica, come la definì, non a caso per primo, proprio il poeta Coleridge nelle sue Philosophical Lectures del 1819.
La tesi di Richard Holmes è che l’interrelazione tra scienza e romanticismo prodottasi in questo fortunato periodo, ha determinato il modo in cui ancora oggi guardiamo alla scienza. Non è solo l’entusiasmo con cui noi profani accogliamo le scoperte, ma è anche il modo prepotente in cui la scienza è entrata nel nostro immaginario collettivo. Per segnarci così fortemente, sarebbero dunque bastati i pochi anni tra il giro del mondo del capitano James Cook (iniziato sull’Endeavour nel 1768) e il viaggio alle Galapagos di Charles Darwin (a bordo del Beagle nel 1831). L’eredità giuntaci sarebbe individuabile in punti precisi. Innanzitutto, nella creazione del mito del genio scientifico solitario, instancabile, assetato di conoscenza e da essa esclusivamente motivato. In secondo luogo, nell’idea che esista un momento “Eureka”, un istante preciso in cui la scoperta si palesa e si materializza al suo scopritore, lungo un processo di rivelazione cui l’uomo partecipa attivamente. Infine, nel mito di una scienza pura, disinteressata e indipendente dalla politica e dalla religione. Secondo Holmes, rispetto alla prima rivoluzione scientifica – associata ai nomi di Newton, Hooke e Cartesio, e simultanea alla nascita della Royal Society a Londra e della Accademia delle Scienze di Parigi – che diffondeva, in latino, un sapere privato, elitista e specialistico, dal 1770 la scienza diventa popolare: rivolta al grande pubblico, iniziano le lezioni aperte a tutti, vengono redatti manuali scientifici (spesso scritti da donne), mentre la scienza diventa una materia insegnata già ai bambini. Per Holmes, inoltre, l’Age of Wonder è importante giacché si è trattato dell’età in cui cessò il monopolio della Royal Society: al suo posto, nacquero nuove e numerose istituzioni scientifiche.
Nonostante egli sia per formazione e interessi più vicino ai poeti, la vicenda ricostruita nel saggio viene ripercorsa da Holmes (fellow della British Academy, docente fino al 2007 di Biographical Studies alla Università dell’East Anglia, nonché biografo, tra gli altri, di Coleridge e Shelley) muovendo dall’ottica degli scienziati, più che dei poeti. Leggendo le vicende del botanico Joseph Banks, del chimico Humphry Davy e del collega Michael Faraday, dell’astronomo William Herschel, dei medici Erasmus Darwin e William Lawrence, degli esploratori James Cook e Mungo Park, scopriamo che questi scienziati erano romantici come i poeti, che le loro scoperte erano sorprendenti come le poesie, che in molti di loro l’interesse per la poesia era profondo, quasi strutturante. Contestualmente, del resto, era fortemente radicato in molti poeti l’interesse per la scienza.
Di certo il libro è efficace nel rendere la dinamicità della scienza. La scienza continuamente riscrive e riassesta la propria storia retrospettivamente: facendo storia della scienza, più che in altri ambiti, sconfitte e vittorie sono intimamente legate. In questo senso, va salutata positivamente la sempre maggior diffusione dello studio della storia e della filosofia della scienza (i primi dipartimenti furono introdotti nelle università di Cambridge e di Berkeley).
Si tratta dunque di un saggio importante – oltre che di piacevole lettura, anche per i numerosissimi aneddoti – perché la storia della scienza va fatta. Differiamo però con Holmes su alcune considerazioni finali. Mentre infatti egli avverte una linea rossa senza soluzione di continuità tra l’Age of Wonder e l’oggi, forse, invece, una certa frattura parrebbe essersi prodotta. Se noi spettatori contemporanei siamo, per lo più, ancora figli di quella meraviglia sono forse gli scienziati a essere cambiati. Lo spessore e la complessità che innervava le figure descritte da Holmes – spessore e complessità che ne allargavano ottiche e visioni dando un respiro effettivamente ampio ai loro interessi – non sempre è riscontrabile oggi. Si dirà che forse è la scienza nel suo complesso a essere cambiata. Già, il punto sta nel capire se tali mutamenti abbiano finito o meno con il trasformarne, nell’essenza profonda, il senso. Il rischio può infatti essere che da spettatori meravigliati si diventi, a volte, spettatori attoniti.
L’Osservatore Romano