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La buona letteratura? È una questione di fiducia

“La prossima poesia che scriverò – afferma Raymond Carver nei versi di The Pipe – avrà della legna / proprio al centro / legna da ardere così intrisa / di resina che il mio amico mi lascerà / i suoi guanti e mi dirà:  infilati questi prima di maneggiarla”. Davanti a L’altro fuoco (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 300, euro 24), del gesuita Antonio Spadaro, viene proprio da chiedersi:  con quale “legna” tenere accesa una passione non effimera o strumentale per la letteratura? L’altro fuoco compone, insieme al precedente volume Abitare la possibilità (Milano, Jaca Book, 2008), un dittico significativamente sottotitolato “L’esperienza della letteratura” che raccoglie e rielabora alcuni articoli presentati sulle pagine de “La Civiltà Cattolica”.
Una buona occasione per cogliere il filo rosso dell’ormai quindicennale ricerca di Spadaro, che procede per accostamenti e dialoghi con autori assai diversi:  da Rowan Williams a Oscar Wilde, fino a Stig Dagerman, Giorgio Bassani, Alda Merini, Cesare Pavese e a Bartolo Cattafi. L’esperienza della letteratura, in fin dei conti, consiste proprio nell’ospitare con infinito rispetto l’epifania di quell'”altro” – che è lo scrittore – dentro di sé, secondo una felice espressione di Ezio Raimondi. E di rispetto per i suoi interlocutori Spadaro ne ha tanto, coniugato però a un pressing di domande ineludibili:  qual è il motore, il nervo scoperto, il punto vulnerabile da cui sgorga la loro opera artistica? Quale la miccia della loro scrittura? E quando la loro umanissima – e per questo bruciante – esigenza di senso trova risposta nella pagina?
Schemi precostituiti da cui partire, critici o teologici che siano, Spadaro non ne ha. Se non un’unica ma fondante certezza, quella stessa su cui san Tommaso d’Aquino e Teilhard de Chardin poggiarono le più immense cattedrali:  la realtà è di Dio e chiunque si apre alle sue indomite possibilità con “disponibilità assoluta” (Cesare Pavese) ne fa esperienza. È nella propria personale visione del mondo, dunque, che ogni scrittore si gioca completamente e senza veli. Perché l’apertura all’esistente è una questione che precede ogni altra, anche quella più esplicitamente religiosa, per quanto a essa contigua. L’ansia conoscitiva dello scrittore invoca una resa, un’accettazione incondizionata, la prima forma di obbedienza:  il passo indietro dell’Io, che si spoglia delle sue idee precostituite, affinché il reale possa venirgli incontro e svelarlo a se stesso.
Principale interesse di Spadaro non è quindi ricostruire psicologie verosimili né tracciare bilanci critici esaustivi – che pure sono presenti e spesso scompigliano le carte in tavola – ma confrontarsi con l’accostamento al reale proprio di ogni autore. Il suo, si potrebbe dire, è un “discernimento di visioni” capace di restituire alla letteratura la sua dimensione più universale, cioè quella umana. In questo modo la galleria di ritratti che compone L’altro fuoco diventa qualcosa di più della buona antologia saggistica, poiché permette a qualunque lettore di dialogare, interrogarsi o riconoscersi nei percorsi tutt’altro che lineari degli autori presentati.
La questione innerva ogni riga, innescando un circolo virtuoso tra estetica ed etica:  perché fare buona letteratura non è, in primo luogo, questione di stile, ma di fiducia nel reale. La letteratura autentica mette a fuoco il nostro sguardo, lo libera dalle tirannie dell’astrazione e gli restituisce freschezza. Non si limita a capire la realtà, ma la patisce fino in fondo, permettendo al mondo di venirci incontro e di ferirci con la sua bellezza e il suo tormento. Pertanto l’aspirazione dello scrittore dovrebbe essere “tutta di giungere alla natura vera delle cose, di vedere le cose con occhi vergini, di arrivare a quell’ultimate grip of reality che solo è degno di essere conosciuto” (Pavese).
Ecco allora spiegato il titolo di questo saggio, L’altro fuoco. La parola poetica è la parola accesa dalla verità dell’esistenza, la quale – come il biblico roveto ardente – continua a bruciare per secoli e a illuminare generazioni senza mai consumarsi. Il linguaggio poetico fa ardere le parole senza ridurle alle ceneri dell’insignificanza e della consuetudine – così María Zambrano – e salva le parole, riconducendole alla loro originaria pienezza di senso, al loro permanente bisogno di essere fecondate dal reale. Parole che non nascondono i lati oscuri dell’esistenza, ma neppure v’indugiano oltre il necessario per vittimistico narcisismo. Perché oltre il velo della tenebra c’è qualcosa di più grande e chi lo attraversa può giungere a toccarlo:  è il Lògos, mistero integrale dell’esistenza e suo fondamento, Parola che si fa Volto e abbatte il muro di divisione tra linguaggio e realtà (L’Osservatore Romano).

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