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In Turchia c’è chi prega ancora nella lingua di Gesù

Parlato un tempo in tutto il Medio Oriente, l’aramaico, la lingua di Gesù, non è stato più usato dal popolo a partire dall’VIII secolo ma è sopravvissuto nel ceto colto per altri cinque secoli, e si usa ancora come lingua liturgica. Le “isole” in cui esso sopravvive si trovano nei dintorni di Tur Abdin, una regione montagnosa del sud-est della Turchia che comprende la metà orientale della provincia di Mardin e la parte occidentale del Tigri della provincia di Sirnak, confinante con la Siria. Nella vita comune qui si parla l’arabo ma nella liturgia dei cristiani siriaci si adotta l’aramaico con evidente fierezza dei monaci che non nascondono il privilegio e la soddisfazione di poter consacrare, unici al mondo, il pane e il vino con le stesse parole usare da Gesù.
Nella zona di Mardin – din vuol dire religione, mar significa santo – il cristianesimo è ancora parte della comunità e della storia. La città è una sentinella arroccata sul precipizio che separa l’altipiano anatolico dalla piana dei babilonesi e si affaccia sulle terre di Abramo. La civiltà più antica della storia è quindi ai suoi piedi. Tur Abdin, il luogo dove il cristianesimo si nota di più, deriva dal siriaco e significa “montagna dei servi di Dio”, perché un tempo era tutto un gradevole ondeggiare di chiese, e oggi, invece, è punteggiato solo di minareti immobili nel vento incandescente e un immenso silenzio. Impressiona, comunque, vedere ancora tra loro, alti sulle frontiere fra Turchia, Iran, Iraq e Siria, millenari campanili cristiani. Il perché è da cercare nella tradizione, secondo la quale, subito dopo la Pentecoste, il discepolo Addai (Taddeo) arrivò a Nisibis e a Edessa, dove più tardi sorse un’università in cui insegnò sant’Efrem e nella quale ottocento alunni trascrissero la Bibbia in aramaico, parlato anche oggi nel dialetto turoyo nei villaggi di questo ventilato pianoro dell’alta Mesopotamia. Isolato in una rocciosa solitudine geografica, che fu rispettata anche dalle grandi vie di comunicazione, l’altopiano non risentì neppure marginalmente della cultura ellenistica, consentendo così la sopravvivenza della cultura nata nella comunità e nei numerosi monasteri sorti all’ombra delle università, nonché la fioritura di un monachesimo nelle diverse forme di vita eremitica (stilitica reclusa, cenobitica) che distinguono tuttora la Chiesa siriaco-ortodossa e la pongono all’attenzione di tutte le altre Chiese.
Attorno a Tur Abdin sorgono infatti alcuni villaggi cristiani, sopravvissuti alle bufere della storia e alle malefatte degli uomini che, purtroppo, hanno allontanato molte famiglie. Ma alcune hanno resistito, pur ricordando quanto successe all’indomani della prima guerra mondiale, e cioè un massacro simile a quello degli armeni. Pare che circa cinquecentomila cristiani siriaci (secondo i registri siro-ortodossi novantamila appartenevano alla loro comunità) morirono con altri per la stessa fede. Tristissimi tempi nei quali furono rubate vite, averi, chiese (trasformate in moschee), donne, bambini. Poi venne la guerriglia che tutti conosciamo e che dura ancora. E questo perché, a differenza delle tre minoranze non musulmane tutelate dal Trattato di Losanna (greci, armeni ed ebrei), la loro è priva di ogni garanzia di libertà di culto e di espressione. “Non abbiamo un territorio – dicono – siamo sparpagliati per il mondo, ma siamo molto uniti grazie alla nostra identità linguistica, sociale e culturale. La religione, ce lo insegna la storia, ha sempre avuto una parte predominante nella civiltà. Il nostro è un popolo molto religioso e siamo orgogliosi di parlare la lingua che fu di Gesù”.
Coloro che sono rimasti sono conosciuti come siro-kadim, cioè vecchio, antico, rispetto a una divisione successiva. Il centro spirituale è proprio Tur Abdin, chiamato anche “il monte Athos dei siro-ortodossi”, famoso per la presenza dei monasteri che si scambierebbero per il prolungamento naturale delle rocce se non se ne distaccassero per un’architettura che si rifà più ai templi assiro-babilonesi che alle basiliche cristiane. Un fatto che conferma come il cristianesimo di questa regione, anche nell’architettura, abbia mantenuto stretti legami con le più antiche tradizioni locali. Fino al 1970 i monasteri erano quaranta, oggi non superano le dita di una mano. Con le partenze che si sono succedute – secondo alcune stime la Chiesa siriaca ha oggi 2.250.000 fedeli sparsi nel mondo – è scomparsa una cultura che risale agli albori del cristianesimo e di cui è possibile vedere qualche favilla in alcune opere conservate gelosamente nei monasteri, e particolarmente nella Kirklar Kilisesi (chiesa dei 40 Martiri) di Mardin, fondata nel 569 e fino a qualche anno fa chiesa patriarcale. Oggi è retta da un papas che insegna l’aramaico ad alcuni giovani, tra cui i suoi tredici figli, che non vogliono rassegnarsi alla possibile scomparsa della cultura della propria gente. Fra le varie opere preziose, egli conserva la famosa Bibbia di Mardin, un lavoro del 1200 rilegato in pelle di gazzella e impreziosito delle miniature dell’amanuense Dioscoro Teodoro.
I monasteri attualmente aperti sono cinque, e precisamente Mar Gabriel, Der El Zafaràn, Mar Mekel, Meryemana, Mar Yacoup. L’unico accessibile ai turisti è quello di El Zafaràn (dello Zafferano), così detto per il colore giallastro delle sue pietre. Risale ai tempi di san Giovanni Crisostomo (397). Il monastero più importante, comunque, è quello di Mar Gabriel, 120 chilometri da Mardin, un luogo mitico fondato nel 397 e da allora sempre abitato. I muraglioni di un metro e mezzo lo fanno somigliare a una fortezza, ma hanno consentito ai monaci di resistere ai turchi, agli arabi, ai crociati, ai persiani, ai mongoli, ai bizantini. Nonostante tutto è rimasto sempre lì, sulla linea più rovente del Medio Oriente. Qui vive il metropolita di Tur Abdin, Mor Timotheus Samuel Aktas, con tre monaci, quattordici suore e trentacinque giovani studenti:  è perciò punto di riferimento religioso e culturale per tutti i cristiani siro-ortodossi, che conservano ancora, com’è stato detto, l’aramaico antico, la lingua di Gesù. Da Mardin fino a qui pare che i cristiani abbiano un’unica passione:  conservare la lingua più antica della cristianità, che la Turchia centralista di Ataturk bandì per quasi un secolo in tutte le sue forme scritte.
Oggi Tur Abdin si nutre di memorie, ma queste non garantiscono la sopravvivenza. Custodire belle chiese e preziosissime pergamene miniate può costituire un privilegio e un’invidiabile ricchezza, ma il pericolo che tutto possa finire come e quando non si vorrebbe provoca una comprensibile angoscia. Le piccole comunità, inoltre, pur essendo libere di praticare la propria fede, sono costrette a pesanti rinunce, come l’insegnamento del siriaco e il suo uso. La catechesi deve essere tenuta nella lingua nazionale.
Eppure la lingua siriaca ha avuto un ruolo fondamentale nella trasmissione della cultura greca a quella araba:  il corpus scientifico greco fu tradotto (dal VII al X secolo) in arabo attraverso traduzioni intermedie in siriaco. I traduttori, come il famoso Isa Ibn Ishaq, erano siriaci, conoscevano perfettamente l’arabo e lavoravano non solo nell’ambito dei monasteri, ma anche al servizio dei califfi abbasidi. Oltre questo, essa ha trasmesso molte fonti orientali, come il Kalila wa Disma, derivato dalla raccolta di quelle favole moralizzanti indiane conosciute sotto il nome di Panchatantra. Perciò i monaci di Tur Abdim e i siro-kadim usciti dal proprio territorio sono decisi a non farla morire. Mentre, infatti, alcuni si interessano perché la imparino i pochi ragazzi rimasti vicino a loro, altri la insegnano tutte le domeniche dopo la messa festiva, preoccupandosi che la si parli con proprietà e correttezza. Per gli emigrati adulti all’estero vengono stampati in siriaco due giornali, in Olanda e in Svezia. Inoltre, per salvare questo immenso patrimonio che potrebbe scomparire si è costituita a Milano e a Linz, in Austria, l’associazione “Amici del Tur Abdin”.
Oggi occorre decidere se si vuole conservare una cultura antica di milleseicento anni o se si vogliono cancellare anche gli ultimi resti di una tradizione non musulmana. È in gioco la multiculturalità che ha sempre caratterizzato questa nazione sin dai tempi dell’Impero ottomano (da L’Osservatore Romano).

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