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Iliadi e Odissee dipinte su corteccia di eucalipto

Le figure umane sono punti luminosi di energia vibrante in cammino nel difficile mondo del deserto australiano, dove le mappe per immagini e simboli che descrivono il territorio in cui si vive sono contemporaneamente guide necessarie alla sopravvivenza e patrimonio mitologico che segna l’identità di una tribù. Kululu, il luogo delle bacche, dipinto George Tjapanangka, potrebbe sembrare un semplice e gioioso inno alla fecondità della natura, ma una lettura più approfondita del linguaggio simbolico della pittura aborigena svela uno scenario più vasto e interessante e una dimensione narrativa che sfugge completamente a uno sguardo distratto.
La mostra “Australia today, capolavori degli aborigeni d’Australia”, aperta fino al 7 marzo 2009 al museo di Palazzo Incontro a Roma, è l’occasione per scoprire che dietro ai pattern a colori primari delle tavole si nasconde un complesso codice da decrittare; nel caso dell’opera di Tjapanangka appena citata, la cronaca di un rito in cui l’uomo cerca di dialogare con la misteriosa forza sorgiva che si nasconde dietro a ogni creatura vivente. La scena si svolge nel sito magico di Kululu che si trova ad est del lago Mackay, il luogo degli Uomini Albero secondo la tradizione della tribù Pintupi:  due cacciatori cercano di raggiungere una collina coperta dai cespugli di Ngamunypurru (la carissa lanceolata, che produce bacche commestibili) ma devono prima intonare un canto propiziatorio per calmare l’ira dello Spirito dell’albero. La raffigurazione del “Luogo del sogno degli Uomini Albero” illustrato al centro del dipinto è ricca di riferimenti al luogo dove si è svolto il rito.
Mentre un quadro in apparenza semplice come Sette sorelle di Ruby Daniels Nangala narra in realtà il mito cosmogonico delle Pleiadi (che ricorda le figlie di Atlante cantate da Esiodo):  al Tempo del Sogno l’anziano Jllbi si invaghì delle fanciulle e riuscì a rapirne due, ma le altre gridarono così forte da richiamare l’attenzione del Grande Padre dal cielo, il quale, mosso a compassione, trasformò le ragazze in stelle. Jllbi, pentito, chiese perdono e la divinità assunse anche lui in cielo trasformandolo nella costellazione di Orione.
Curata dalla National Gallery Firenze – presieduta da Marco Parri e con la direzione artistica di Luca Faccenda – la mostra propone per la prima volta in Italia le opere di artisti nativi del grande continente australiano (fra gli altri, Rover Thomas, Clifford Possum, Judy Watson Napangardi e Nancy Nungurrayi) cercando di comunicare al visitatore qualcosa della complessità e della ricchezza della loro narrazione mitologica per immagini.
“Il popolo degli aborigeni è costituito da una moltitudine di clan che vengono spinti al nomadismo dalla ricerca continua di cibo – spiega Faccenda – le loro radici culturali, basate su leggende, giungono dalla notte dei tempi o meglio dal Tempo del Sogno, quel momento collocato prima dell’inizio dello scorrere del tempo che indicano con Tempo Antico, che precede il Tempo del Lontano Passato, e poi il Lunghissimo Presente, l’oggi; gli aborigeni non misurano il tempo neppure con lo scorrere delle stagioni”.
Queste popolazioni, che non conoscono la scrittura, tramandano tutto il bagaglio delle loro esperienze tramite le arti figurative; ogni manufatto cela un significato espresso per simboli, spesso con un significato esoterico che ne impedisce anche la più semplice lettura ai non iniziati. La gamma cromatica, pur vastissima, è ottenuta da pigmenti naturali, come le ocre o le argille di diverso colore, il carbone fossile per i neri e i succhi delle erbe e delle bacche selvatiche.
La tela, o la carta, compaiono solo in tempi recenti, mentre la pittura tradizionale ha come supporto la corteccia di eucalipto e tutto ciò che offre il deserto come le pietre, le grandi uova di emu e i rami secchi levigati dal vento. “Se gli esseri mitici raffigurati come totem che giungono dal Tempo del Sogno non venissero celebrati – spiega Faccenda – la natura cesserebbe di esistere:  questo è ciò che gli aborigeni credono” (da l’Osservatore Romano).

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