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Il traduttore che conquistò Ludmila

La più famosa scrittrice russa contemporanea, di formazione scientifica ma poi passata alla letteratura, con milioni di copie vendute e ricca di molti premi, Ludmila Ulitskaja, può vantare nel suo curriculum ben quattordici romanzi. L’ultimo è Daniel Stein, traduttore (Milano, Bompiani, 2010, pagine 558, euro 22). “Ogni volta do al libro il mio sangue e nel caso di Daniel – sottolinea l’autrice – non è stato un lavoro facile e gioioso ma il massimo della fatica, come se fossi stata una donatrice di sangue”.
Proprio perché è un libro necessario che racconta le sofferenze dei testimoni incontrati, rivisitando l’orrore. Qual è il nodo centrale di questo romanzo? Un’avventura fra persone di diversa estrazione sociale che palesa quanto a tutto e a tutti è sotteso, un interrogativo che grava sulla coscienza di ogni vivente:  che cosa è buono, che cosa è bene? Automaticamente ponendo in secondo piano, ma non in irrilevanza, la fede religiosa cui ciascun uomo e ciascuna donna aderisce. Non per via astratta, speculativa, ma per via incarnata e testimoniata in un ometto piccolino ed anziano che Ulitskaja conobbe decisamente di sfuggita ma fece, per la luce che emanava dalla sua persona, scattare in lei l’ispirazione:  nel 1982 Oswald Rufeisen diretto a Mir, in Bielorussia, dal suo convento carmelitano di Haifa, passò per Mosca dovendo attendere una coincidenza per alcune ore.
Alcuni amici, affascinati dalla sua testimonianza carismatica, lo portarono a casa di Ludmila Ulitskaja, che prese parte alla loro conversazione. La straordinaria personalità di Daniel colpì la scrittrice perché lo ritenne un “giusto”, nell’accezione ebraica. Era unico, senza assomigliare a nessuno. Il disegno si dipanò a poco a poco:  l’autrice della biografia americana si offese quando Ulitskaja le chiese il permesso di commentare in nota la traduzione che stava conducendo.
E fece la sua fortuna, perché Ulitskaja avvertì il richiamo dell’estro ed iniziò il segmento preparatorio della raccolta documentaria, incontrando anche il fratello di Daniel.
Tuttavia abbandonò questa pista ben presto perché in molti fra i cristiani in Israele ne avrebbero potuto trarre danno. La libertà che fece sgorgare la scrittura fu il mutamento del nome del protagonista e l’opzione di una sceneggiatura quasi cinematografica.
I personaggi che fanno corona a Daniel sono scolpiti con accuratezza e profondità, ogni dettaglio è curato e le scene si susseguono l’una dopo l’altra avvincendo chi legge. Asse portante è indubbiamente il protagonista ma non isolato dal momento storico in cui è vissuto, anzi in esso tanto radicato da interagire con i massimi travagli dell’epoca e da trarne documento di vita e testimonianza propria.
L’ambiente ebraico è dipinto con reale conoscenza di causa perché Ludmila Ulitskaja è un’ebrea convertita al cristianesimo; gli innumerevoli sprazzi sull’Europa e l’America ricchi di dettagli, dicono la passione per l’osservazione acuta durante i viaggi, indubbiamente non all’insegna del mordi e fuggi.
Avvince, nella frammentarietà del testo, la capacità di usare diverse scritture che slittano, non confondendosi, ma portando il lettore in una sorta di percorso che si annoda, precipita ed improvvisamente risale, sempre attratto da una luce che richiama, magnetizza:  profonde questioni filosofiche ed episodi comici, considerazioni teologiche e vita quotidiana fatta di cucina e bucato, lettere e documenti, registrazioni e così via. Lo stesso titolo prescelto offre la chiave precisa per introdursi nell’opera:  Daniel Stein, traduttore. L’autrice conserva il nome carmelitano del suo eroe, ne muta il cognome in Stein, pietra, ad indicare la solidità di un ragazzo, di un giovane uomo, attraverso lo sfacelo della Shoah, del sorgere del comunismo, dello sfaldarsi dei legami familiari e della patria per l’avanzare del nazismo; ne coglie la professione profonda di radice, traduttore, non solo perché Daniel passava con disinvoltura da una lingua all’altra, aiutando chiunque non avesse potuto comprendere, ma soprattutto perché nell’immagine che suscita si colga l’etimologia profonda di trans-ducere, guidare oltre.
Daniel vive una vita da “traduttore”, dalla cattura alla liberazione, dalla Shoah allo Stato di Israele – non per nulla “tradusse” 330 ebrei fuori dal ghetto di Emsk salvandoli – dall’ebraismo al cristianesimo in cui riconosce viva la radice santa, nel suo sacerdozio come dono ricevuto ed offerto a tutti.
Il romanzo si prefigge di essere risposta netta ai negazionisti:  nello spaccato di storia che gronda sangue, una realtà si impone e sarà impossibile affermare che la Shoah non sia mai stata, anzi scrivendone e parlandone se ne manterrà la conoscenza e la si trasmetterà alle nuove generazioni.
Se il vero volto di Rufeisen appariva timido, modesto, umile tanto da apparire insignificante ma ricco di grande forza interiore e grandissimo umorismo e di una radicata autoironia, quello romanzato ne riprende, nel patchwork degli eventi e dei personaggi, i tratti e l’afflato e lo “traduce” con icasticità e mano felice.
Daniel Stein è un segno ecumenico che precorre il Vaticano ii, d’altra parte un simile eroe avrebbe potuto vivere da pensionato una volta divenuto carmelitano? Da qui tutta la sua opera di “traduttore” in terra d’Israele (Osservatore Romano).

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