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Il Natale incompiuto di Manzoni

“Il Natale del 1833 – scrive il cardinale Giovanni Colombo – [… è] l’opera incompiuta del Manzoni:  bella e significativa sia per quel che dice e sia per quel che tace, come è del resto ogni opera “incompiuta” (…). Il più grande poeta religioso della nostra letteratura sa congiungere l’indicibile strazio della sua anima col tema ineffabile del Natale, illuminato dal mistero di Pasqua”.
Citate in apertura, come esergo, le parole di Simeone sull’anima di Maria trapassata dalla spada (cfr. Luca, 2, 35), il poeta non contempla più il Fanciullo che dolcemente riposa nel presepio:  ora, si ritrova il Fanciullo tremendo e inesorabile:  “Sì che tu sei terribile!”; “Come da sopra i turbini / Regni o Fanciul severo! / È fato il tuo pensiero, / È legge il tuo vagir”. Le sue deliberazioni, anche di fronte al pianto e ai lamenti, restano implacabili:  “Vedi le nostre lagrime, / Intendi i nostri gridi”.
Nel verso che segue l’atteggiamento divino parrebbe quasi beffardo:  “Il voler nostro interroghi, / E a tuo voler decidi”. La timorosa orazione dell’uomo sale implorante al cielo, ma essa rimane inascoltata e non trattiene il fulmine, che scende a colpire:  “Mentre a stornar la folgore / Trepido il prego ascende / Sorda la folgor scende / Dove tu vuoi ferir”.
Ci appare, in questo Natale, un Manzoni “in veste di Giobbe” (Valter Boggione), che, colpito dalla pesantissima ed enigmatica mano divina, percuote sgomento il cielo con le sue lancinanti domande e nella incomprensibile prova grida a Dio tutta la sua insopportabile sofferenza. Sono le stesse domande lasciate negli appunti sparsi dell’inno:  “Ti vorrei dir = che festi / Ti vorrei dir = perché?”.
D’altra parte, un giorno quello stesso inflessibile Fanciullo, destinato anch’egli a soffrire, farà salire, a sua volta, dal suo cuore piagato, i suoi spasimanti lamenti e sperimenterà tutta l’amarezza della supplica disattesa:  “Ma tu pur nasci a piangere / Ma da quel cor ferito / Sorgerà pure un gemito, / Un prego inesaudito”.
In questa contemplazione del Cristo paziente, che condivide l’angoscia e la tribolazione dell’uomo, si direbbe che Manzoni vede aprirsi la via del conforto e che incominci a illuminarsi il mistero del dolore. “Come Gesù, il poeta china la fronte in adorazione dei disegni della provvidenza, e allora sorge anche la più docile e disponibile professione di fede:  “onnipotente!”.
E il pensiero, all’inizio appena accennato, torna alla Mater dolorosa:  l'”unicamente amata”, così da essere lei sola collocata “più su del perdono” (Ognissanti).
Ora essa nella incontenibile gioia della sua maternità, vezzeggiandolo e sentendolo come suo, stringe al seno il “suo pargolo” divino:  “Ti stringe al cor, che attonito / Va ripetendo:  è mio”.
Ma verrà un giorno in cui le verrà strappato, e, dopo averlo accompagnato sulla via della Croce, lo vedrà morire:  “Un dì con altro palpito, / Un dì con altra fronte, / Ti seguirà sul monte, / e ti vedrà morir”.
Questa presenza di Maria nella tragedia di quel Natale, che ha rapito a Manzoni la moglie Enrichetta, per la quale il ricorrere nei frammenti del termine “Cara!” dice tutto il suo tenero e immutato affetto sponsale – sembra indicare che sulla sua anima di credente la fede sta effondendo la sua confortevole luce. Ma continua il tormento per quella perdita e la penna gli cade di mano”.
Tale è la fede di Alessandro Manzoni che reca in sé il dramma e l’aureola di pace, propria di un biblico patriarca. È il suggello virgiliano apposto dallo stesso poeta:  cecidere manus (Eneide, VI, 33).
L’Osservatore Romano 

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