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Il diritto divino di Fini

Com’era prevedibile, dopo un periodo di – relativa – tregua l’onorevole Fini è tornato a caricare a testa bassa contro governo e maggioranza.
Il siluro arriva, stavolta, dalla riviera ligure, ennesima tappa dell’infinita tournée di presentazione del suo libro: il disegno di legge sulle intercettazioni, in discussione al Senato, solleva i suoi “dubbi” in quanto “in contrasto con il principio di ragionevolezza”. Mai era successo che il presidente di una delle due camere interferisse – per di più in maniera così irriguardosa ed arrogante – nei lavori dell’altra: naturale, perciò, che il presidente Schifani sia insorto a difesa dell’autonomia dell’assemblea da lui presieduta, richiamando al contempo l’imparzialità con cui egli – al contrario dell’altro – è solito onorare il proprio ruolo.
Al che il collega di Montecitorio non ha trovato altro che replicare che non intende abdicare al suo ruolo politico, facendo per giunta ribadire al Secolo d’Italia (glorioso quotidiano della Destra italiana, oggi ridotto a ridicolo “foglio d’ordine” di una arci-minoranza eretica e sinistrorsa) uno dei refrain che lui stesso va ripetendo da tempo a giustificazione del proprio “attivismo”: “Fini è stato eletto presidente della Camera anche per il ruolo politico che ha svolto”. Secondo il Fini-pensiero, insomma, sarebbe la sua vicenda politica, la sua particolare storia personale a garantirgli, per una sorta di diritto divino, una interpretazione del ruolo istituzionale assegnatogli in questa legislatura del tutto in contrasto con la tradizione di quella stessa carica.
Noi ci permettiamo di contestare la sostenibilità di una simile lettura della nostra Carta costituzionale. Com’è noto, la Costituzione italiana è il frutto di una delicatissima mediazione fra il modello occidentale e moderato propugnato dalla Democrazia cristiana e le istanze marxiste avanzate dai social-comunisti. In pratica, ciascuno dei due principali schieramenti post-bellici temeva che, alle campali elezioni politiche del 1948, vincessero gli avversari; donde un bizantino sistema di pesi e contrappesi fra governo, parlamento e Quirinale, al quale oggi il Presidente Berlusconi giustamente attribuisce la sostanziale impotenza dell’esecutivo.
Fu in una tale prospettiva “calmieratrice”, peraltro, che i “padri costituenti” – ai quali l’onorevole Fini ama fare così spesso riferimento – decisero che le sedute per l’elezione del presidente della Repubblica (per le quali i due rami del parlamento si riuniscono congiuntamente) fossero presiedute non dal presidente del Senato (all’occorrenza “vicario” del Capo dello Stato), bensì da quello della Camera. Niente di più lontano, dunque, dall’interpretazione di comodo, iper-politicizzata, sbandierata da un po’ di tempo dai finiani.
Ed in effetti nessun presidente della Camera (così come del Senato) ha mai dato un taglio così di parte al proprio mandato. Nella corrente legislatura, per di più, abbiamo un’aggravante, una “coordinata” – se così la vogliamo chiamare – fissata dal vincitore delle elezioni (e dunque depositario della volontà popolare) Silvio Berlusconi: il quale, alla richiesta del leader del maggiore partito di opposizione, Veltroni, che alla minoranza venisse assegnata la presidenza di una delle due camere, ribatté – con un’argomentazione peraltro politicamente ineccepibile – che rimanendo (nonostante lo schiacciante esito elettorale) all’opposizione la principale carica istituzionale – e cioè la presidenza della Repubblica – non le necessitassero altri incarichi rappresentativi “a garanzia”.
Che cosa ha fatto allora Fini? Ha stravolto pure quest’altro “paletto” messo dal leader della coalizione vincente, facendo sì che, di fatto, oggi, oltre alla prima, anche la terza carica dello Stato sia appannaggio dell’opposizione. Oltre allo strappo istituzionale, è ancora una volta l’aspetto politico a preoccupare: non più tardi di una settimana fa, infatti, Fini, incontrandosi con Ghedini sulla spinosa questione delle intercettazioni, si era mostrato possibilista sul disegno di legge, non lasciando trasparire nulla sulle sue vere intenzioni: per questo oggi dal Pdl si grida alla ”pugnalata alle spalle”.
Quest’ultimo episodio, oltre a rivelare il progressivo alzare il tiro, l’inarrestabile accentuarsi della gravità del “controcanto” finiano, dimostra l’inaffidabilità dell’ex leader di An anche sul piano della contrattazione politica. Come uscire, allora, da una simile situazione? Come risparmiare agli Italiani altri tre anni di una commedia così penosa?
Un mese fa, all’indomani della turbolenta direzione nazionale del Pdl, noi ci permettemmo di suggerire a Berlusconi di ispirarsi al “leone” di Machiavelli e di espellere gli scissionisti mancati capeggiati dal Fini: ma il Cavaliere, onorando fino in fondo il nome di Popolo “della libertà” da lui voluto per il partito unico dei moderati, ha preferito non ricorrere alle maniere forti, sperando magari che in qualche modo la questione sbollisse da sé.
Oggi che si ha la certezza che una tale prospettiva non si verificherà, non resta che tornare alla “volpe”, e quindi giocare d’astuzia. Il Pd si allinea da tempo passivamente a tutto quanto strumentalmente affermato da Fini, alla maniera di un naufrago che nella sua disperazione si aggrappa al primo tronco che vede galleggiare, per quanto marcio; il tg3, ormai da due anni, fa regolarmente l’apertura sulla quotidiana bordata al governo portata dall’ex segretario del Msi.
Ma se a richiamare bruscamente la terza carica dello Stato alla serietà istituzionale dovesse essere l’autorevole leader di un altro partito di opposizione, tipo Casini, allora i margini di manovra della scheggia impazzita di Montecitorio si ridurrebbero già, e non di poco. Se poi la tirata d’orecchi dovesse giungere addirittura dal Quirinale, è facile immaginarsi che scomparirebbero del tutto. Se vuol venire a capo della diabolica anomalia politico-istituzionale determinatasi è qui, a questo punto, che il Cavaliere deve tessere, ordire, intrigare (da il Predellino).
 

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